I costi umani di tale impresa, tuttavia, furono elevatissimi, e il peso maggiore di quell’operazione fu sopportato dai contadini. Stalin infatti si propose un duplice fine: garantire il regolare rifornimento dei centri industriali ed esportare grandi quantità di grano all’estero, in cambio di tecnologia e capitali da impiegare nell’industria pesante (produzione di acciaio, estrazione di carbone, costruzione di grandi bacini idroelettrici…)
Per raggiungere questi obiettivi, Stalin abbandonò la NEP e riprese la brutale politica di requisizione dei raccolti dalle campagne. Inoltre, nel gennaio del 1930, di fronte alla rinnovata resistenza dei contadini Stalin decise di procedere alla liquidazione dei kulak come classe. In pratica, ciò significò una massiccia offensiva contro tutti i contadini agiati, accusati di essere appunto dei kulak, cioè degli speculatori, degli sfruttatori del popolo, degli strozzini.
Gli elementi ritenuti più pericolosi per il potere sovietico furono uccisi o internati: nel 1930, secondo i dati ufficiali dell’OGPU, 20.000 kulak furono fucilati, mentre altri 114 000 finirono in lager. Quanto agli altri contadini, sempre secondo i dati ufficiali della OGPU, tra il 1930 e il 1931 furono deportate in zone periferiche e semidesertiche 381 173 famiglie di kulak, pari a 1.803.392 individui. La maggior parte di loro perì di stenti, a causa della mancanza di generi alimentari, case, attrezzi da lavoro, combustibile. I bambini, naturalmente furono i soggetti più esposti alla mortalità, che all’inizio del 1932, negli insediamenti speciali, era del 10% al mese.
La collettivizzazione delle campagne
Tutti gli altri contadini furono obbligati a riunirsi in grandi aziende agricole collettive chiamate kolchozy: unità produttive di vaste dimensioni, comprendenti spesso diverse migliaia di ettari e controllate dallo Stato.
La maggior parte dei contadini rifiutò questa rivoluzione dall’alto introdotta nelle campagne, ma le autorità fecero sistematicamente ricorso alla forza ed alla deportazione in campo di lavoro nei confronti di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si rifiutavano di entrare nelle fattorie collettive.
Portato avanti in questo modo brutale e violento, il processo di collettivizzazione delle campagne ebbe, nei primi anni, effetti disastrosi sull’economia sovietica.
Nel 1932, la produzione agricola era calata dell’11,4 % rispetto al 1929, mentre il numero degli animali da carne era diminuito, come minimo, del 50%, perché molti contadini preferirono abbattere il proprio bestiame, piuttosto che consegnarlo allo Stato.