Scritto da:Alberto Berrini
Fonte: www.bancaetica.it
Come era prevedibile, il G20 di Seul (11-12 novembre 2010) non ha portato alcun risultato apprezzabile, in particolare rispetto alla “guerra delle valute” (di cui si era parlato nella rubrica “global vision” del mese scorso) tuttora in corso. Del resto la decisione della Banca Centrale americana, che ha preceduto il summit, di accelerare ulteriormente la creazione di moneta con enormi acquisti di titoli – in parole povere la scelta della Fed di stampare dollari – ha precluso a priori ogni esito positivo del G20 coreano. Si è trattato, infatti, di un atto unilaterale che ha depotenziato qualsiasi “possibilità diplomatica” dell’incontro di Seul. Gli Stati Uniti hanno, tra l’altro, così dimostrato un’incapacità culturale, prima ancora che economica e politica, di comprendere quanto il mondo sia cambiato e che gli altri Paesi, in particolare quelli in condizioni economiche favorevoli, non accettano più senza reagire quanto viene stabilito a Washington. Ma, soprattutto in quest’ultimo G20, sono definitivamente tramontate le ormai tenui speranze di un’uscita “semplice”, perché politicamente coordinata a livello internazionale, dalla crisi. Nella primavera del 2009 (vertice di Londra), al culmine della tempesta economica mondiale, sembrava che il G20, accantonato l’obsoleto G7, potesse diventare l’organismo in grado di svolgere quel ruolo. Ma da allora non si sono registrati che fallimenti negli incontri successivi, come fallimentare è stata la complessiva politica economica internazionale nell’affrontare una crisi che evolve in fasi successive, che vanno a toccare ambiti diversi del sistema economico e che, proprio per questo, è ben lontana da concludersi.
E l’esito di tutto ciò, almeno nella parte cosiddetta “sviluppata” del mondo, sono le decine di milioni di posti di lavoro persi e le scarse prospettive di riassorbire, nel breve come nel medio termine, questa “nuova” disoccupazione con riflessi negativi a livello sociale fin troppo evidenti. Dunque, in definitiva, il summit di Seul segnala che di fronte al disordine monetario internazionale nessuna “Bretton Woods” è all’orizzonte. Ma il problema non è solo “diplomatico”, ossia di relazioni internazionali, ma anche e soprattutto di “paradigma teorico” che ancora è alla base delle politiche economiche nazionali e internazionali. Da questo punto di vista il liberismo non è stato sconfitto dalla crisi, né questa ha riportato in auge, se non in maniera strumentale e limitata all’emergenza, il pensiero keynesiano. Questo implica dei cambiamenti, non solo di obiettivi e di strumenti, ma anche di atmosfera culturale, visioni della società e sistemi di valori che circondano e permeano il nucleo della politica economica. Al punto che l’economista americano Krugman tristemente osserva che “Il Presidente Obama e compagnia sono riusciti in una grande impresa: convincere gli elettori che l’interventismo pubblico ha fallito senza applicare l’interventismo pubblico”. (Obama ha perso e non ha più “stimoli”, Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2010) Tornando ai commenti sull’ultimo G20, anche un economista “moderato” come Franco Bruni ha sottolineato che “la crisi dovrebbe aver insegnato che le cose sono cambiate: cambiano le locomotive ma, soprattutto, il modello di sviluppo precedente non si è inceppato per un incidente di percorso, ma perché non era sostenibile”. (Il mondo alla guerra delle valute, La Stampa, 13 novembre 2010).
Peccato che, a distanza di tre anni dalla più grave crisi economica internazionale, paragonabile solo alla Grande Depressione degli anni Trenta, nessuno sembra accorgersene.