Scritto da: Gianmarco Calore
Fonte: http://www.polizianellastoria.it
Foto: libro fotografico di Pasquale Chessa
Cosa succede all’uomo quando perde il senso della realtà? Quali possono essere i percorsi che portano la sua mente a calpestare qualsiasi senso di dignità, di rispetto, di onore? Sono domande molto profonde che forse un unico filosofo del passato ha saputo riprendere da una frase latina del commediografo Plauto e aggiornarla ai tempi moderni: homo homini lupus, l’uomo è un lupo per un altro uomo. In sintesi, Thomas Hobbes voleva dire che il consorzio civile regge le proprie basi solo sul timore reciproco.
Questo concetto fu ripreso in tempi recentissimi dall’esercito nazifascista. E applicato benissimo. Si può dire alla lettera.
Altopiano di Asiago, zona dei Sette Comuni Vicentini, aprile 1945.
Siamo nel cuore della Repubblica Sociale Italiana, una realtà che i monarchici (e non solo) videro come golpista e che resse il nord Italia subito dopo l’armistizio dell’Otto settembre 1943. Quasi due anni che però in queste zone ebbero un impatto molto più duraturo. Asiago, Lusiana, Enego, Gallio, Foza, Rotzo, Roana e gli agglomerati urbani limitrofi sono nomi che ai più indicano solo località turistiche della pedemontana veneta. Furono in realtà molto di più, addirittura per alcuni storici una delle prime federazioni autonome che caratterizzarono il Veneto anche sotto il profilo linguistico, con l’adozione del cimbro come lingua ufficiale. Questa zona già nel recentissimo passato aveva versato uno dei più grossi tributi di sangue quando nella Prima Guerra Mondiale il fronte correva proprio lungo quelle montagne: migliaia di giovani mandati al massacro in quella che fu tuttavia definita una “guerra di posizione”, una guerra condotta esclusivamente in trincea rispettando in linea di massima quel codice d’onore che caratterizzava gli eserciti contrapposti. Beninteso, non che di porcate non ne siano state commesse anche allora…. Ma era tutta un’altra storia in cui spesso i prigionieri di guerra venivano rispettati al pari delle popolazioni sottomesse. I cannoneggiamenti austriaci avevano raso al suolo paesi che ancora oggi portano i segni (volutamente conservati) di una devastazione affidata alla memoria dei Vecchi e alle foto dell’epoca: la piazza di Asiago ridotta a un cumulo di macerie in cui svetta miracolosamente illesa la statua della Madonna… Gallio attraversata da carri ricolmi di gente e masserizie gettate alla rinfusa alla ricerca di salvezza…. Enego, con il primo grande ospedale da campo, una tendopoli grigio-verde con gigantesche croci rosse su sfondo bianco che il nemico rispettava come fosse una chiesa. Ma anche stalle disintegrate, con i pochi animali superstiti che vagavano senza meta tra carogne di loro simili… malghe abbandonate con i tetti sfondati e le finestre a pezzi…. un prete che porta conforto…. Era la guerra: e la gente del posto la accettava con muta rassegnazione e con le maniche rimboccate per bonificare i boschi da alberi schiantati e da bombe inesplose, per rimettere in piedi uno straccio di casa, per ricostruirsi un futuro.
Ma nell’aprile del 1945, di che guerra vogliamo parlare? A voler essere precisi la guerra in senso stretto era già finita l’Otto settembre di due anni prima con la firma di Badoglio in calce all’armistizio che, se almeno formalmente chiudeva le ostilità ufficiali, avrebbe dato il via alla più cruenta e assurda guerra civile che mai nessun governo avrebbe potuto controllare. Dal Nove settembre 1943 il fiero alleato germanico si trovò in un’Italia nemica: i camerati che il giorno prima avevano gozzovigliato, combattuto, fraternizzato fianco a fianco improvvisamente divennero un reciproco bersaglio contro cui sparare. Ma non per legge di conquista: solo per rappresaglia. E in rappresaglia non si guarda in faccia a nessuno: in questo l’esercito nazista dette il meglio di sé, trascinando in una galleria degli orrori anche la popolazione civile che poco o nulla c’entrava in manovre politiche che con ogni evidenza nemmeno capiva.
Quando la mattina del Nove Settembre 1943 a Valdagno fece la propria comparsa la prima autocolonna militare proveniente da Roma, la gente del posto credeva fossero arrivati addirittura gli Alleati. E invece questi parlavano un italiano fluente, magari corrotto dagli accenti delle varie regioni. E poi sulle uniformi c’era pur sempre quel Fascio Littorio che tutti conoscevano bene. Vennero requisiti gli stabilimenti industriali della Lanerossi e della Marzotto in cui questi fascisti costituirono la loro base: alla gente fu spiegato che il Duce, liberato dalla sua prigionia dorata a Campo Imperatore, era stato posto da Hitler al comando di una sorta di “testa di ponte” che avrebbe dovuto costituire un cuscinetto tra il Reich e l’avanzata degli Alleati. Questa testa di ponte fu chiamata Repubblica Sociale Italiana: uno Stato nello Stato con proprie leggi, proprio organico civile e militare, un proprio statuto. Ma soprattutto, ancora alleato alla Germania nazista. La gente non capì subito il significato di questa posizione: per molti fu addirittura la soluzione ideale per mantenere la zona tranquilla e scevra da combattimenti e rappresaglie la cui eco era già giunta anche tra quelle montagne. Costoro aderirono quindi di buon grado alla RSI credendosi finalmente al sicuro. Molti altri invece capirono fin da subito che da quel governo fantoccio non ci si sarebbe dovuti aspettare niente di buono, anzi…. Primo, perche gli Alleati (la cui avanzata si era momentaneamente fermata sulla linea di Roma) sarebbero comunque prima o poi arrivati; secondo, perchè i nazisti presenti sul posto avevano cominciato a comportarsi da padroni e non da alleati; terzo, perchè la gente aveva in ogni caso iniziato a sparire…..
In questo contesto sconclusionato troviamo un Poliziotto italiano. Si chiama Anselmo Dal Zotto: di lui non sappiamo nulla, nemmeno l’età; sappiamo solo essere un appartenente alla Polizia Repubblicana, una guardia assegnata alla questura di Vicenza. Del suo arruolamento nessuno sa niente, ma non doveva suonare strano in un’epoca in cui anche la Polizia era costretta ad arruolare nuovo personale su base strettamente locale. Per la Polizia Repubblicana poi, figurarsi…. un organo istituzionale dalla vita brevissima e dalla burocrazia quasi inesistente: sono convinto che il fascicolo matricolare del giovane sia andato perduto o distrutto assieme alla sua storia.
Il suo nome tuttavia salta fuori in un elenco di persone fucilate sommariamente dai nazisti in ritirata in uno dei tanti, troppi eccidi insensati da loro compiuti mentre cercavano la salvezza al di là delle Alpi, incalzati dall’esercito alleato che ormai aveva liberato quasi tutto il nord Italia. L’eccidio di Pedescala.
Per capire cosa accadde esattamente in quei giorni tormentati non è bastato affidarmi ai libri (dopo avere ovviamente gettato alle fiamme quelli più di parte). L’estate scorsa mi trovavo in ferie a Enego che da Pedescala dista un tiro di schioppo….. mah, esempio infelice: meglio dire che è poco distante, parlare di schioppi in tale contesto fa strano…. Una piccola e intenzionale deviazione con una scusa a moglie e bimba mi ha portato in un paesotto tranquillo, tipico dell’altopiano. Ho girato un po’ a piedi, annusando l’aria che tirava: e quale miglior posto se non una delle osterie di paese dove trovare qualcuno con cui parlare? Due anziani, i classici nonnetti che “battono carta” di fronte a un bianchetto, eccoli là! Ed ecco cosa è venuto fuori su quei fatti.
Altopiano di Asiago, 24 aprile 1945. Mattinata soleggiata resa ancora più frizzante dalla imminente Liberazione: la gente di montagna tuttavia è ancora impaurita. Non c’è più nessuno Stato, la RSI esiste formalmente ma i suoi organi istituzionali sono allo sbando: chi ha cercato rifugio all’estero, chi è stato già passato per le armi, chi è semplicemente scomparso. Non ci sono più ordini da eseguire, gli ormai ex fascisti stanno cercando di mettere in salvo se stessi e i propri familiari. Le strade della Valsugana, ma soprattutto i viottoli di montagna, di notte sono più trafficati di una moderna autostrada a Ferragosto. Macchine a fari spenti, carretti e cavalli, gente a piedi con valige e cartoni: tutti alla ricerca di una via di fuga, tutti con la paura di cadere in uno dei tanti posti di blocco. E non importa di che natura essi siano, se partigiani o di qualche pattuglia nazista: qui prima si spara e poi si fanno domande. Si spara così alacremente che molto spesso nella fretta nazisti uccidono altri nazisti, fascisti altri fascisti e partigiani altri partigiani…. Non c’è da scherzare.
Non esiste forse nemmeno più un esercito nazista. Hitler è probabilmente già morto, ma loro non lo sanno. Gli ufficiali non hanno più ordini da far eseguire ai propri uomini, ma solo tanto sangue agli occhi per una guerra persa miseramente quando fino all’anno prima sembrava che il Terzo Reich avrebbe dominato il mondo….
In assenza di ordini e con la rabbia nelle vene ecco l’uomo diventare lupo per l’altro uomo.
Quella mattina di fine aprile un commando partigiano della Brigata “Sette Comuni” attacca un convoglio nazista in ritirata: una delle tante scaramucce che lascia sul terreno alcuni tedeschi morti, altri male in arnese. Ma che consente ai partigiani di fuggire con due camion, chi dice di viveri, chi invece di munizioni. I superstiti germanici si aggregano spontaneamente a un battaglione di stanza poco lontano: è un grosso nucleo, un battaglione Waffen SS comandato da un giovane ufficiale, il capitano Wasmuth. Prova a dire Wasmuth a Pedescala, poi vedi cosa succede ancora oggi….
L’ufficiale è probabilmente uno dei tanti invasati nazisti tutti d’un pezzo: vedere i suoi uomini arrivare con le corna rotte urta il suo orgoglio teutonico. Probabilmente ricorda uno dei tanti discorsi-fiume del suo Fuhrer sulla superiorità della razza tedesca e sull’invincibilità delle sue armate. Sta di fatto che il giorno dopo piomba in paese con tutti i suoi soldati, raduna la gente in piazza ed emette un proclamo: avete tre giorni di tempo per consegnarci i responsabili dell’agguato, poi uccideremo dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Probabilmente la gente si è guardata sbigottita…. ma non erano finite tutte ‘ste ca**ate? Non era finita, la guerra? Alla radio avevano detto che ogni atto di guerra e di rappresaglia sarebbe dovuto cessare immediatamente…. E questo mangiapatate cosa dice? Dieci italiani per ogni tedesco ucciso…. Non si sa cosa si dissero i Pedescalesi in quei tre giorni: forse credettero a uno scherzo, più probabilmente cercarono di temporeggiare in attesa di questi alleati che si diceva essere ormai di là del fosso…. In ogni caso alla scadenza dell’ultimatum nessun civile, partigiano o semplicemente italiano viene consegnato nelle mani di Wasmuth.
Dal 27 aprile (e per i tre giorni successivi) iniziarono fucilazioni sommarie ovunque: in paese, nella piazza; dietro il cimitero; nei boschi… La furia nazista non ha più freni, Wasmuth fa arrivare in zona altri battaglioni di connazionali. Sono i paracadutisti tedeschi della 1° Fallschirmjäger Division (reparto della Wehrmacht), provenienti da Schio (VI), chiamati anche “Grune Teufel” (“Diavoli Verdi”) che avevano resistito a Montecassino; i militari russo-ucraini del 232° Ostbataillon della Wehrmacht con a capo il capitano Fritz Büschmeyer; generici reparti tedeschi della Wehrmacht; volontari italiani della XXII° Brigata Nera “Antonio Faggion” dell’Ispettorato delle Camicie Nere del Veneto e del Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle Camicie Nere, ultimi pazzi che ancora credevano nella rinascita dell’impero. E siccome Pedescala non basta più, si va a prendere la gente anche nelle frazioni limitrofe: Forni e Settecà. Venivi fermato per strada, magari con in mano la gamella del latte e lì venivi fucilato. Punto e basta. “Era come sparare alle lepri”, mi disse uno dei due anziani. Alla fine di questa pazzia si contarono 64 morti, tra i quali lo stesso parroco di Pedescala e addirittura un bambino di 5 anni. Il lupo si era saziato e graziò sei persone.
Tra questi 64 martiri della follia umana troviamo anche lui, la guardia di P.S. Anselmo Dal Zotto. I due anziani dell’osteria non si ricordano di lui, ma qui da queste parti Dal Zotto è uno dei cognomi più diffusi tanto che le singole famiglie si conoscevano più per soprannome. E quindi non possiamo che supporre che il militare, compresa la disfatta imminente del regime che gli aveva dato lavoro, avesse raggiunto la propria famiglia in paese magari disertando, tanto chi controllava più? Chi poi meglio di lui poteva essere a conoscenza dell’arrivo ormai prossimo degli anglo-americani? Bologna era libera, da ultime anche Piacenza e Mantova mentre i principali capoluoghi del Nord erano ormai controllati dal Comitato di Liberazione Nazionale e dalla sua Polizia Ausiliaria. Ormai presto in paese la gente avrebbe masticato la gomma americana…. E forse una simile fiducia in un roseo futuro non gli fece capire che sarebbe stato meglio aggregarsi con armi e bagagli a una di quelle tante colonne di fuggiaschi che di notte attraversavano boschi e vallate verso le città libere, magari Padova o addirittura Ferrara. Si dice che Dal Zotto sia stato fucilato il 3 maggio: questa in realtà è la data di rinvenimento del suo cadavere crivellato da colpi di machine pistol. Di sicuro la sua morte avvenne tra il 27 e il 30 aprile 1945.
Poche, scarne notizie inquadrate in un avvenimento di cui ancora oggi si parla poco. Non sono nemmeno riuscito a sapere se magari Anselmo aveva aderito a qualche formazione partigiana: anche qui il suo nome non compare in nessun elenco. E solo UN libro tra i tanti che parlano di Pedescala lega il nome di questo ragazzo alla sua professione: guardia di Pubblica Sicurezza della Polizia Repubblicana, sede di servizio questura di Vicenza.
Ecco tutto. Mi piacerebbe tanto che questo piccolo ricordo venisse letto magari da qualche lontano suo parente. O da qualcuno comunque in grado di darci notizie maggiori: sarebbe il miglior modo di rendergli giustizia.