Fonte: www.marcomessina.it/2012/03/mmt-e-il-caso-argentino/
La parola che oggi descrive meglio il sistema di potere attuale è TINA. TINA è un realtà acronimo, T.I.N.A.: There Is No Alternative. Si tratta di uno slogan usato da Margaret Thatcher per spiegare l’ineluttabilità del modello neoliberista e dell’avvento del villaggio economico globale. Il Libero Mercato, la svalutazione del lavoro, la logica del profitto, il contenimento della spesa pubblica, l’austerità fiscale e la castrazione del potere dello Stato come unica soluzione ai problemi economici e sociali.
L’articolo che segue dimostra che un’alternativa esiste, e l’Argentina ne ha fatto buon uso per uscire dalla drammatica crisi economica e sociale del 2001. Gli ottimi risultati del paese latino-americano dovrebbero stimolare l’interesse dei paesi dell’area euro, oggi stretti nella morsa del debito, dei mercati finanziari e dai sacrifici imposti da una ideologia economica dominante che non concede deroghe e vie d’uscita, e che necessariamente vede la sua applicazione a spese dei cittadini e del loro potere d’acquisto.
Autore dell’articolo tradotto è Randall Wray, principale esponente della Modern Money Theory, dottrina economica neokeynesiana che ha giocato un ruolo importante nel risollevare l’Argentina dopo la crisi.
In Italia la MMT è stata presentata da 5 economisti nel corso di un seminario organizzato a Rimini due settimane fa dal giornalista Paolo Barnard e a cui hanno preso parte duemila persone accorse da tutto il paese. L’assenza di giornalisti e rappresentanze sindacali ha dimostrato quanto valido sia ancora in Italia e in Europa il vecchio slogan thatcheriano.
SOVRANITA’ MONETARIA E INDIPENDENZA DELLA POLITICA: IL CASO DELL’ ARGENTINA
L. Randall Wray, senior scholar al Levy Economics Institute e professore di economia presso la Università del Missouri-Kansas City, USA.
Questo articolo prende in esame i benefici della sovranità monetaria, intesa come la condizione per cui un governo sovrano emette moneta con tasso di cambio fluttuante. Questo assetto garantisce l’indipendenza della politica fiscale e monetaria consentendo al governo di perseguire obiettivi di politica interna come la piena occupazione. E’ bene precisare che ci sono gradi diversi di indipendenza della valuta. Alcune nazioni decidono di adottare una valuta estera per gli scambi interni cessando del tutto l’utilizzo della moneta nazionale. La ‘dollarizzazione’ ne è un esempio. Altri paesi, invece, decidono di continuare ad usare la propria moneta agganciandola però ad una valuta estera. Fino a quando viene mantenuta una riserva del 100% in valuta estera (sotto forma di depositi nelle riserve della Banca Centrale del paese estero o titoli di Stato emessi dallo stesso paese) non vi è alcuna differenza tra questo sistema e la ‘dollarizzazione’ (dato che in entrambi il governo dovrà disporre dei dollari necessari a coprire le passività delle amministrazioni). Quello appena descritto è essenzialmente il modo in cui l’Argentina gestiva la sua moneta, conservando cioè riserve in dollari con un rapporto di un biglietto verde per ogni pesos emesso e promettendo su richiesta di convertire in dollari i pesos.
Ci sono paesi che invece scelgono di agganciare il tasso di cambio a quello di una valuta estera, mantenendo però meno del 100% di riserva come protezione. Nella pratica questo è molto rischioso in presenza di cambi fissi e consentendo la conversione di valuta su richiesta. L’atteggiamento prudente di un governo che mantiene una riserva minore del 100% non sarebbe quindi molto diverso da uno che garantisca una riserva del 100%, dal momento che ogni politica in grado di provocare un ‘run’ della valuta (corsa agli sportelli) porterebbe presto alla bancarotta dovendo obbligatoriamente convertire la valuta di scambio in valuta di riserva. Anche una riserva di garanzia del 100% non sarebbe sufficiente quando un governo è costretto ad emette passività non monetarie (come i titoli di stato) per prendere in prestito dollari.
Di conseguenza, i paesi che agganciano le loro valute limitano anche i ‘flussi di capitali’ perché inibiscono la conversione della valuta, impongono controlli sui capitali investiti e sono indotti ad ottenere un surplus di bilancio. Questo significa che la politica interna sarà sbilanciata verso l’austerità: alti tassi di interesse (per attrarre capitali) e restrizioni fiscali (per contenere l’inflazione e ridurre le importazioni). Inoltre, concentrare tutti gli sforzi sul mantenimento del tasso di cambio equivale a trascurare altri obiettivi, come ad esempio la crescita e lo sviluppo
In questo scritto esamineremo dapprima l’esperienza dell’Argentina con l’adozione del currency board (comitato valutario) che ha condotto alla crisi. Passeremo poi ad analizzare nel dettaglio i motivi per cui la sovranità monetaria è in grado di generare le condizioni ideali perché si abbia l’indipendenza politica. Vedremo infine le politiche riparatorie messe in atto dall’Argentina all’indomani della crisi, ed infine alcune considerazioni sull’India.
L’ESPERIENZA DELL’ARGENTINA CON IL COMITATO VALUTARIO
Nel 1991 l’Argentina adottò un comitato valutario (currency board) basato sul dollaro come ultimo disperato tentativo di limitare l’inflazione. Da quel momento in avanti l’Argentina abbandonò la sovranità della moneta, perchè era diventata un utilizzatore della valuta piuttosto che un emettitore. La creazione del comitato valutario, oltre a varie riforme strutturali che comprendevano una rapida privatizzazione dei beni dello Stato e il ridimensionamento dei poteri del governo nazionale, sembravano portare notevoli benefici. Le esportazioni, insieme alle importazioni, crescevano ben oltre il 7% ogni anno rispetto al PIL durante la prima metà degli anni 1990, stimolato dalla domanda degli Stati Uniti e aiutato da una economia aperta e un commercio liberalizzato. Le spese federali diminuirono da oltre il 27% del PIL alla fine degli anni 1980 a circa il 20% durante il 1990, il bilancio federale raggiunse l’equilibrio nella prima metà degli anni 1990 (perfino un surplus nel 1994). L’inflazione è scesa da quasi il 100% all’inizio degli anni 1990 fino ad azzerarsi per il resto del decennio (fino a quando il comitato valutario crollò). Non c’è da meravigliarsi se chi promosse il Washington Consensus vide l’esperimento argentino come un grande successo.
Il problema era che le politiche messe in atto rallentarono l’economia con irrigidimenti fiscali. Per tutta la durata del comitato valutario, la disoccupazione rimase elevata mentre crescevano le sperequazioni sociali. Non ci fu la crescita attesa della spesa del settore privato, né si vide un incremento dei consumi o degli investimenti, o un surplus commerciale. Tuttavia, l’ancoraggio al dollaro rese le esportazioni argentine meno competitive quando i paesi concorrenti svalutavano. Un’apprezzamento del dollaro, e quindi del peso, fece in modo che le importazioni aumentavano più rapidamente delle esportazioni in modo da raggiungere un deficit commerciale costante dal 1992 in poi. Con un deficit commerciale, l’Argentina poteva ottenere i dollari necessari solo prendendoli in prestito o attraverso la vendita di beni. Inoltre, data la presenza di forze deflazionistiche (il PIL, al netto dell’inflazione, era in picchiata dal 1999), il gettito fiscale era in dimuzione a partire dalla metà degli anni ’90, e le amministrazioni provinciali (insieme al settore privato) accumulavano enormi debiti.
Nel tentativo di rallentare la crescita del suo disavanzo, il governo federale tagliò i trasferimenti alle amministrazioni regionali inducendone un ridimensionamento. La riduzione dei redditi e dei consumi, che – a loro volta – portarono ad una contrazione del gettito fiscale, spinsero le regioni sull’orlo della bancarotta. E’ interessante notare che le amministrazioni regionali sperimentarono in questo periodo nuove modalità di finanziamento, ovvero debiti a breve scadenza che venivano usati anche per pagare le tasse regionali. I Patacones ne erano un esempio, che presto furono accettati in tutto il paese (per pagare i servizi pubblici, ma anche il Big Mac da McDonald!) ed infine anche dal governo nazionale per il pagamento delle tasse. Tuttavia, i Patacones avrebbero solo ritardato il default perché, alla scadenza, dovevano essere convertiti in pesos, rappresentando così un debito addizionale per le regioni. Per quanto riguarda il governo nazionale, il nuovo metodo di pagamento non aveva fatto altro che accelerare il default, dal momento che le entrate di pesos e dollari erano diminuite a favore dei Patacones con i quali gli argentini avevano scelto di pagare le tasse.
Inoltre, nonostante i tassi di interesse argentini non si abbassarono come previsto (anzi, successivamente alla creazione del comitato valutario, rimasero alla pari con i paesi vicini, a dimostrazione del fatto che la valutazione di mercato del rischio di default sostituì quasi perfettamente quella del rischio di riduzione del tasso di cambio), il debito federale per il pagamento dei servizi crebbe abbastanza rapidamente (prima del 2000 solo i costi per gli interessi sul debito ammontavano al 17% della spesa pubblica). L’effetto combinato di una lenta crescita economica e alti tassi di interesse sul debito causarono quindi un circolo vizioso che finì per esercitare pressioni sul Tesoro perché instaurasse un regime di austerità fiscale, che presto divenne un ostacolo per la crescita, aumentò la disoccupazione e fece salire la pressione fiscale giacché c’era stato un crollo del reddito imponibile. Il default era inevitabile, così come il malcontento generale che raggiunse il suo apice quando la disoccupazione toccò il 20%.
In conclusione, anche ammettendo che la dollarizzazione ebbe inizialmente effetti positivi, essa mise l’Argentina in una situazione insostenibile, che degenerò nel Natale 2001, quando il paese rifiutò di pagare i suoi debiti in dollari, abbandonò il comitato valutario, si rifiutò di convertire i pesos in dollari e sganciò la sua valuta. Vibranti proteste di piazza determinarono la caduta di un governo dopo l’altro. Tuttavia, poco più di un anno dopo, l’Argentina iniziò una fase di forte ripresa. Questo fu dovuto contemporaneamente alla moneta libera, al mancato pagamento del debito estero denominato in dollari ed a maggiori garanzie di lavoro.
Torneremo al successo di questo pacchetto di misure dopo aver esaminato nel dettaglio come funziona una moneta sovrana.
SOVRANITA’ MONETARIA
(Nda1: IOU sta per “I Owe You”, ovvero “io ti sono debitore”. Con questa sigla si intende una cambiale, un ‘pagherò’, un pezzo di carta che dimostra che un debitore deve dei soldi ad un creditore
Nda2: HPM (High Powered Money) è la base monetaria emessa dalla banca centrale rappresentata da denaro cash o obbligazioni)
Un paese come gli Stati Uniti (allo stesso modo il Giappone, la Turchia e l’Argentina dopo aver abbandonato il comitato valutario) crea una moneta per uso interno (garantendo il suo utilizzo principalmente chiedendo il pagamento di tasse in tale valuta, sebbene alcuni spingono per l’adozione di leggi per il corso forzoso). Il governo (attraverso il Tesoro e la Banca Centrale – la FED negli Stati Uniti) emette e spende high powered money (HPM – moneta ad alto potenziale, cioè denaro cash e riserve della Banca Centrale) che sono le sue passività. Il governo americano non promette di convertire il suo HPM in un’altra moneta, né in oro o altra merce, e senza dover seguire alcun tasso di cambio fisso. Il tasso di cambio flessibile è fondamentale per proteggere l’indipendenza fiscale e monetaria, ovvero ciò che io chiamo ‘sovranità’, anche se la sovranità di governo ha ben altre dimensioni. I benefici portati da un governo sovrano non dipendono solo dal cambio flessibile, ma c’è dell’altro: il governo sovrano spende (acquista merci, servizi e beni, o effettua trasferimenti finanziari) attraverso l’emissione di un assegno del Tesoro, o, in misura sempre maggiore, semplicemente accreditando le riserve di una banca privata. In entrambi i casi, tuttavia, gli attivi (HPM) si creano quando la banca centrale accredita il conto di riserva della banca ricevente. Analogamente, quando il governo riceve i pagamenti delle tasse, si riduce il saldo di conto presso la banca. In quel momento il deposito bancario del contribuente viene addebitato. Siamo abituati a pensare che un governo per poter spendere ha bisogno prima di ricevere i soldi delle tasse, ma questo non vale per un governo sovrano. Se un governo spende accreditando un conto bancario (emissione di IOU-HPM) e tassa addebitando ancora un conto bancario (eliminazione di IOU-HPM), allora non è un problema di “spendere” quello che si incassa con la tassazione. In altre parole, con un tasso di cambio fluttuante e una moneta nazionale, la capacità di effettuare pagamenti di un governo sovrano non dipende né dal denaro incassato né dalle riserve disponibili.
Molti fanno fatica a cogliere questo punto fondamentale perché siamo abituati a pensare un governo come non sovrano. Ed è proprio un governo non sovrano che è costretto a trovare il denaro prima di spenderlo; nella maggior parte dei casi un governo non sovrano ottiene il denaro tassando e prendendolo in prestito (i governi possono anche vendere servizi, beni e alcuni prodotti per procurarsi denaro). Per esempio, i governi statali negli Stati Uniti non sono sovrani nel senso in cui qui intendiamo questo termine. Essi in realtà spendono i soldi che derivano dal gettito fiscale. Quando i contribuenti pagano le tasse statali, i loro depositi bancari vengono addebitati mentre quelli dei governi statali accreditati. Questi depositi statali sono quindi utilizzati quando gli stati decidono di spendere, lasciando questa volta che i loro conti vengano addebitati e accreditando della stessa somma i conti di coloro i quali ricevono gli assegni statali. Se le entrate fiscali subiscono una contrazione, gli stati sono costretti a tagliare le spese, aumentare le tasse o chiedere prestiti per finanziare le spese. Tuttavia, la facoltà dello stato di chiedere in prestito del denaro è alla fine subordinata alle valutazioni del mercato sul rischio default. Per questo motivo, gli stati sono obbligati a agire prociclicamente in recessione, tagliando le spese e aumentando le tasse, accrescendo così la disoccupazione.
Negli Stati Uniti è il governo federale (sovrano) ad avere – in ultima analisi – la responsabilità e i mezzi per mantenere la piena occupazione, non gli stati singoli e non sovrani. Logicamente, questo è implicito nel sistema fiscale. Come emittente sovrano della moneta, solo il governo nazionale è in grado di spendere indipendentemente dalle entrate. I trasferimenti fiscali (per lo più provenienti dal Tesoro degli Stati Uniti, sebbene anche la Fed possa entrare in gioco) da Washington verso gli stati possono aiutare a contrastare il loro comportamento prociclico. Si noti che quando l’Argentina adottò il currency board, questo si trovò in una situazione molto simile a quella degli stati americani. Se Washington fosse intervenuta con trasferimenti sufficienti di fondi destinati alla non sovrana Argentina, avrebbe probabilmente evitato la crisi fiscale, economica e sociale. Purtroppo però, provvedimenti simili avrebbero goduto di scarso appoggio politico negli USA.
Quando un governo comune o non sovrano chiede un prestito, emette una promessa di pagamento (IOU) e in cambio ottiene un deposito bancario di cui ha bisogno per poter spendere. Il governo sovrano, d’altra parte, non ha bisogno che qualcuno gli accrediti un conto bancario prima di spendere la propria moneta accreditando un altro conto bancario privato. Il governo sovrano vende un titolo non per finanziare le sue spese, ma per ridurre le riserve in eccesso di HPM (titoli di stato), semplicemente offrendo una passività soggetta ad interesse (titolo) in cambio di una passività non soggetta ad interesse (HPM addebitato sui conti bancari). Questo è in realtà una operazione di gestione dei tassi di interesse (nota alla FED come compensazione dei fattori operativi) messa in atto riducendo le riserve bancarie allo scopo di eliminare gli assets non fruttiferi (non più in grado cioè di maturare interessi) che altrimenti avrebbero abbattuto i tassi di interesse sui titoli a breve scadenza.
Il punto è che il tasso di interesse pagato sui titoli sovrani non è soggetto alle normali ”forze di mercato”. Il governo sovrano vende solo titoli al fine di drenare riserve in eccesso allo scopo di raggiungere i suoi obiettivi di tassi di interesse. Si potrebbe sempre scegliere di lasciare semplicemente riserve in eccesso nel sistema bancario, nel qual caso il tasso di interesse sui prestiti a breve scadenza tenderebbero allo zero. Quando il tasso a breve termine è pari allo zero, il Tesoro può comunque vendere titoli che pagano pochi punti base sopra lo zero e trovare compratori disposti a profittarne perché tali titoli offrono un rendimento migliore rispetto alle alternative (a rendimento zero). Questo conduce al punto in cui un governo sovrano con una moneta fluttuante può emettere titoli tutte le volte che lo desidera, normalmente con un tasso di interesse superiore di pochi punti base al tasso a breve termine fissato come obiettivo. La scelta di un governo di mantenere il tasso di interesse a breve termine al di sopra dello zero (il che significa che anche gli interessi pagati sui titoli saranno superiori allo zero) potrebbe essere spiegata con ragioni politiche o economiche, ma si rischierebbe di cadere nell’errore di pensare che la dimensione del disavanzo pubblico incida in qualche modo sui tassi di interesse pagatoi sui titoli.
Un esempio reale può essere il Giappone, un paese che ha avuto per lungo tempo il più grande deficit pubblico (fino all’8% del PIL), così come l’accumulo di debito pubblico più grande di tutti i tempi (oltre 150% del PIL) tra i paesi più sviluppati. Nonostante questo, il Giappone è riuscito a mantenere tassi di interesse sui titoli di Stato di pochi punti base sopra lo zero (e talvolta, per ragioni tecniche, anche sotto lo zero!). Di recente il Giappone ha annunciato che finalmente alzerà i tassi sopra lo zero, ma come conseguenza di una scelta politica e non di un diktat dei mercati. Anche gli Stati Uniti fecero questa scelta durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i tassi di interesse a breve termine venivano pagati dal Tesoro 3/8 di punto percentuale anche se il deficit pubblico raggiunse il 25% del PIL, cioè tre volte superiore a quello attuale del Giappone! Questo significa che una nazione sovrana con un tasso di cambio fluttuante può scegliere i tassi di interesse sul debito pubblico bassi quanto vuole. Per lo stesso motivo, il governo sovrano potrebbe avere tassi di interesse superiori al 100% se solo lo desidera. Tutto ciò che dovrebbe fare è fissare come obiettivo un tasso di interesse a breve termine del 100% e vendere titoli qualora le riserve in eccesso tendessero ad abbassare tale tasso. Si può quindi sostenere che il tasso di interesse sui titoli di stato di una nazione sovrana dipende da fattori esclusivamente interni. Se il tasso di base è pari a zero o cento questo dipende dalle politiche monetarie messe in atto dal governo, non certo dall’influenza dei mercati.
Un governo non sovrano si trova invece ad affrontare una situazione completamente diversa. Nel caso di una nazione “dollarizzata”, il governo deve ottenere dollari prima di poter spendere. Per questo motivo tassa ed emette titoli per ottenere dollari in previsione di spesa; a differenza del caso di una nazione sovrana, uno stato “dollarizzato” deve quindi avere ”soldi in banca” (dollari) prima di poter spendere. Inoltre, a differenza di un paese sovrano, il governo promette di offrire titoli di stato di terze parti (cioè dollari) per finanziare il proprio debito (mentre gli Stati Uniti e gli altri paesi sovrani emettono solo titoli di stato dello stesso paese).
Per questo motivo, il tasso di interesse sui titoli di paesi non sovrani non è fissato in maniera indipendente (che sia uno stato USA o l’Argentina). Dato che si tratta di prestare dollari, il tasso che paga uno stato dollarizzato è determinato da due fattori: in primo luogo vi è il tasso di base vigente sul dollaro stabilito dalla politica monetaria degli Stati Uniti (l’emittente del dollaro); in secondo luogo la valutazione del mercato circa la capacità di credito del paese non sovrano. Il giudizio espresso dal mercato può essere influenzato da una moltitudine di fattori. La questione fondamentale, tuttavia, è che un governo non sovrano, da utilizzatore (e non emettitore) della moneta non ha la facoltà di decidere il tasso di interesse. Sono piuttosto gli operatori del mercato che fissano i tassi di interesse a cui il governo può prestare.
IMPLICAZIONI DELLA SOVRANITA’ MONETARIA
Quando abbandonò il currency board, l’Argentina raggiunse la sua indipendenza politica: il suo tasso di cambio non era più legato alla performance del dollaro. La sua politica fiscale non era più ostaggio della quantità di dollari detenuta dal governo e il tasso di interesse sui suoi titoli passò sotto il controllo della sua banca centrale. Una delle prime iniziative politiche prese dal neo-eletto presidente Kirchner è stato un programma di creazione di occupazione che garantiva lavoro alle famiglie povere. In quattro mesi, il Piano Jefes y Jefas de Hogar aveva creato posti di lavoro per 2 milioni di argentini, pari al 13% della forza lavoro. Questo non solo ha contribuito a sedare disordini sociali offrendo un reddito alle famiglie più povere dell’Argentina, ma anche a indirizzare l’economia sulla via della ripresa. Stime conservative circa l’effetto moltiplicatore della spesa che derivò dall’aumento dei lavoratori Jefes parlano di un incremento del 2,5% del PIL. Il programma di sviluppo fornì anche servizi necessari e nuove infrastrutture pubbliche che stimolarono ulteriori spese nel settore privato. Senza la flessibilità di un governo sovrano con una moneta fluttuante non sarebbe stato possibile promettere una tale garanzia di lavoro.
L’Argentina trasse dei benefici anche dalla flessibilità di valuta derivata dallo sganciamento dal dollaro che determinò una crescita dell’export dovuta a prezzi più competitivi. La crescita degli Stati Uniti, così come l’aumento globale dei prezzi delle materie prime stimolò le esportazioni argentine. A dire il vero, vi è un certo margine di incertezza nel far dipendere la crescita dalle esportazioni. L’Argentina sa che deve continuare a sviluppare il suo mercato nazionale in modo che da non vincolare la propria crescita a quella degli Stati Uniti. La moneta sovrana consente al governo di utilizzare la politica fiscale (e la politica monetaria) per continuare a creare posti di lavoro nel settore pubblico e privato.
Come l’Argentina, anche l’India sta vivendo una rapida crescita del PIL, attualmente alimentata da un export molto attivo. L’India è anche in procinto di applicare una limitata garanzia di lavoro, in parte dovuta a trend economici molto irregolari tra le varie regioni. Tuttavia, risolvere i problemi di disoccupazione e povertà può richiedere un impegno fiscale molto maggiore di quello che il governo indiano è disposto ad intraprendere. L’India è stata investita dalla crisi finanziaria e del tasso di cambio che recentemente ha colpito le nazioni asiatiche e latino americane caratterizzate da un grande debito estero, calo delle riserve in valuta estera e aspettative di mercato che un tasso di cambio fisso non potevano soddisfare. Tuttavia, bisogna osservare che queste nazioni avevano agganciato (formalmente e non) le loro monete al dollaro. Al contrario, una nazione che adotta una propria moneta a tasso variabile è sempre in grado di offrire lavoro ai cittadini disoccupati. Il suo governo emetterà titoli denominati nella propria valuta e con essa finanzierà il suo debito. E non ci sarà mai rischio insolvenza, che il debito sia detenuto dai suoi stessi cittadini o da investitori esteri. Una moneta fluttuante dà inoltre un ulteriore grado di libertà alla politica interna. Questo non significa che la nazione dovrà necessariamente ignorare la sua bilancia commerciale o le fluttuazioni del suo tasso di cambio, ma significa che si può porre l’occupazione interna e la crescita in cima all’agenda politica.
NOTE CONCLUSIVE
Il governo americano detiene riserve di diverse valute estere, e può occasionalmente utilizzare le sue riserve valutarie per acquistare dollari, o può vendere dollari per ottenere valuta estera. Questo viene fatto non solo per facilitare le transazioni estere operate da cittadini americani, ma anche per influenzare i tassi di cambio del dollaro contro le valute estere. Tuttavia, gli Stati Uniti operano uno ”sporco” regime di fluttuazione del tasso di cambio, piuttosto che un tasso di cambio fisso. Una crollo repentino del dollaro molto probabilmente provocherebbe un intervento ufficiale degli Stati Uniti e altri principali attori finanziari rivolto ad alleggerire le fluttuazioni del tasso di cambio. Tuttavia, non sarebbe finanziariamente vincolante obbligare gli USA ad evitare di finanziare puntualmente passività in dollari o qualunque altra valuta estera, precisamente perché gli USA non possono garantire nessun particolare tasso di conversione.