Fonte: http://www.medarabnews.com/2012/04/25/bahrain-%E2%80%93-il-gran-premio-della-vergogna-e-le-tensioni-nel-golfo/
Era stato annunciato con lo slogan “Unif1ed: One Nation in Celebration”, il Gran Premio di formula 1 che si è corso domenica 22 aprile in Bahrain. L’intenzione era di presentare l’evento come un simbolo della riconciliazione nazionale in atto nel paese.
Il governo ha speso 40 milioni di dollari per ospitare la corsa automobilistica che – dopo essere stata sospesa nel 2011 a causa della sollevazione popolare – quest’anno avrebbe dovuto dimostrare al mondo che la vita nel piccolo regno del Golfo era tornata alla normalità, dopo la brutale repressione che aveva schiacciato la rivolta.
Il risultato è stato assolutamente contrario alle intenzioni del governo: in segno di protesta, decine di migliaia di manifestanti hanno invaso le strade di Manama e dei villaggi attorno alla capitale (50.000 nella sola giornata di venerdì, secondo alcune stime, in un paese di poco più di un milione e 200.000 abitanti, di cui meno della metà sono in possesso della nazionalità). Numerosi sono stati gli scontri con la polizia, che si sono conclusi con un bilancio pesante: un morto e decine di feriti (alcuni anche tra le forze dell’ordine).
Stando ai resoconti, la vittima, un giovane di 37 anni, è deceduta per le ferite provocate da pallini da caccia – una causa di morte tragicamente diffusa nelle proteste che si protraggono nell’isola dal febbraio dello scorso anno, e che hanno provocato un’ottantina di decessi, secondo fonti dell’opposizione popolare (35 persone sono morte nei primi due mesi della protesta, secondo il rapporto della Bahrain Independent Commission of Inquiry – BICI – commissionato dal governo e pubblicato a novembre dello scorso anno).
Oltre a reprimere le proteste con percosse, proiettili di gomma e gas lacrimogeno più volte rivelatosi fatale, le forze di sicurezza governative spesso sparano con fucili da caccia contro i manifestanti. Nella repressione, inoltre, è stato fatto ampio ricorso alla tortura, come documentato dallo stesso rapporto BICI.
Che il Gran Premio avrebbe ulteriormente fomentato le tensioni in Bahrain era chiaro ormai de settimane. Numerosi erano stati gli inviti a cancellare l’evento lanciati dall’opposizione, che aveva affermato che tenere la corsa mentre centinaia di persone tuttora vengono torturate nelle carceri del paese e le manifestazioni vengono soffocate con la violenza era un insulto alla popolazione.
Un responsabile del Bahrain Center for Human Rights (BCHR) aveva dichiarato che la riconciliazione si ottiene attraverso un processo politico, non con la formula 1 mentre i diritti umani continuano ad essere calpestati nel paese.
Il BCHR è noto anche perché il suo fondatore, Abdulhadi al-Khawaja, langue in prigione dall’aprile dello scorso anno, ed è divenuto un simbolo della protesta. Arrestato per aver chiesto la fine della monarchia e la creazione di una repubblica, Khawaja è stato torturato (come documenta lo stesso rapporto BICI) e processato da un tribunale militare. Come segno estremo di protesta, egli ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae ormai da oltre 70 giorni, e che lo ha ridotto in fin di vita.
Le notizie sul deterioramento delle condizioni di Khawaja, ed il fatto che il governo ha finora respinto tutti gli appelli a rilasciarlo, hanno contribuito ad inasprire le tensioni alla vigilia del Gran Premio. Molti osservatori hanno inoltre messo in guardia che, se egli dovesse morire, la situazione in Bahrain potrebbe precipitare.
UNIVERSI PARALLELI
Mentre infuriavano gli scontri, soprattutto nei villaggi attorno alla capitale, la corsa si è svolta in un clima irreale, quasi in un universo parallelo, grazie al fatto che le forze di sicurezza sono riuscite a isolare completamente l’autodromo da quanto stava avvenendo nel resto del paese.
Sabato sera, piloti e personale della formula 1 hanno potuto gustare un barbecue in stile locale sontuosamente offerto dagli organizzatori sotto palme illuminate con i colori della bandiera nazionale del Bahrain.
Jean Todt, il presidente della FIA (la federazione automobilistica internazionale), ha dichiarato di non essere sicuro che quanto veniva riportato dai giornali corrispondesse alla realtà del paese.
Il boss della formula 1 Bernie Ecclestone, che alla vigilia della corsa aveva definito il Bahrain “calmo e tranquillo”, ha risposto infastidito ai giornalisti che quanto stava avvenendo nel paese “non ha niente a che fare con noi”.
Al suo fianco il principe ereditario Salman bin Hamad Al-Khalifa, esponente dell’ala riformista della famiglia reale (quella più incline al compromesso con i manifestanti), è riuscito a fare quasi una bella figura dicendo ai giornalisti che “a differenza di quanto è stato riportato, non stiamo cercando di dire che siamo perfetti”, e aggiungendo di augurarsi “che abbiate l’occasione di vederci con tutte le nostre complessità, e le nostre sfumature”.
In ogni caso, il governo ha invitato solo i giornalisti sportivi, mentre ai giornalisti di politica estera è stato negato l’ingresso nel paese.
La formula 1 rappresenta un grande affare per il Bahrain. Nel 2010 il governo intascò 300 milioni di dollari; quest’anno i guadagni erano stimati in 500 milioni, senza contare i diritti televisivi. Ma ciò non sembra incidere sulla miseria nel paese, in cui oltre 27.000 famiglie (ovvero quasi il 22%) vivono sotto la soglia di povertà, secondo dati della Labour Market Regulatory Authority del Bahrain.
IL RUOLO IPOCRITA DI GRAN BRETAGNA E STATI UNITI
Al di là dell’ipocrisia del circo della formula 1, ad apparire stridente è l’approccio dei due grandi alleati occidentali del Bahrain – Stati Uniti e Gran Bretagna – alla crisi nel paese. Al contrario di quanto è avvenuto con altri regimi arabi colpiti dalle rivolte, nessuna particolare pressione economica è stata esercitata nei confronti della monarchia regnante. Anzi, vi sono stati contatti tra il Regno Unito e il Bahrain – che è uno dei più importanti centri finanziari del Medio Oriente – per rafforzare i rapporti con la City di Londra.
All’indomani dello scoppio delle proteste, nel febbraio 2011, sia Washington che Londra avevano sospeso la vendita di armi a Manama, anche perché erano giunte notizie che le forze di sicurezza reprimevano i manifestanti proprio con equipaggiamento fornito dalle due potenze occidentali.
Tuttavia ben presto Londra ha ripreso le forniture, e notizie della fine di gennaio indicano che anche Washington ha ricominciato a vendere le proprie armi al Bahrain, stipulando singoli contratti di valore inferiore al milione di dollari che, come tali, non sono soggetti alla supervisione del Congresso.
Nel frattempo ha fatto scandalo la notizia che, malgrado la repressione tuttora in corso nel paese, la regina d’Inghilterra ha invitato il re del Bahrain a un pranzo di gala che si terrà al castello di Windsor nella seconda metà di maggio.
Dal canto suo, il Bahrain ha assoldato diverse compagnie americane di “public relations” perché migliorassero l’immagine del paese agli occhi del mondo, ed in particolare lo convincessero dell’inesistenza di qualsiasi rivoluzione proprio in vista del Gran Premio del 22 aprile.
Ma ancora più inquietante è l’ambiguo rapporto che esiste tra Manama da un lato, e Washington e Londra dall’altro, a livello della sicurezza.
Una delle prescrizioni chiave del rapporto BICI – che era stato commissionato dal governo di Manama proprio su pressione di Washington e Londra – era stata di riformare le forze di sicurezza in modo da impedire il ripetersi di abusi e torture.
Tuttavia, a cinque mesi dalla pubblicazione del rapporto, nulla è stato fatto al di là di pochi cambiamenti di facciata, come ha denunciato recentemente anche Human Rights Watch, e come gli incidenti dello scorso fine settimana e degli ultimi mesi (in cui oltre 20 persone sono morte per il solo fatto di aver inalato gas lacrimogeno risultato letale) sembrano confermare.
E ciò malgrado il fatto che, con un gesto probabilmente inteso a tacitare i suoi due alleati occidentali, Manama aveva assunto due funzionari – rispettivamente un britannico e un americano – come consulenti incaricati di assistere il governo del Bahrain a riformare la polizia.
Il paradosso è che entrambi sembrano avere un passato discutibile: il primo è un ex commissario della britannica Metropolitan Police implicato nello scandalo delle intercettazioni illegali fatte dal tabloid “News of the World” di proprietà del magnate Rupert Murdoch, mentre il secondo è l’ex capo della polizia di Miami, accusato di aver “usato la mano pesante” nei confronti dei manifestanti in occasione di un vertice nel 2003.
I due sembrano aver colto l’occasione per “rifarsi una vita” in Bahrain, proprio come avveniva un tempo a molti occidentali che trovavano rifugio “oltremare” in piena epoca coloniale.
UN RECENTE PASSATO COLONIALE
In effetti il Bahrain ha un passato coloniale molto recente. Il paese ha acquisito l’indipendenza solo nel 1971, dopo essere stato un protettorato britannico per più di un secolo.
L’indipendenza del paese segnò la partenza della Royal Navy britannica, a cui però subentrò – praticamente senza soluzione di continuità – la marina militare americana. Oggi il Bahrain ospita il quartier generale della Quinta Flotta, una componente essenziale del potente dispositivo militare che gli USA schierano in questo momento nel Golfo in chiave anti-iraniana.
Una delle caratteristiche più odiate e contestate delle forze di sicurezza del Bahrain è il fatto di ricorrere all’uso di “mercenari” – giordani, siriani, yemeniti, baluchi del Pakistan – in base a un retaggio che è tipicamente coloniale. Furono infatti gli inglesi a ricorrere a questo sistema, in Bahrain ed altrove nel loro impero.
E gli inglesi continuarono a dominare la polizia segreta del Bahrain per lunghi anni, anche dopo l’indipendenza del paese – basti pensare che Ian Hendersen, tuttora ricordato come “il macellaio del Bahrain” per il suo ricorso alla tortura, fu a capo di questi servizi (i cosiddetti “mukhabarat”) fino al 1995.
L’aspetto più allarmante è però che il governo del Bahrain è accusato di arruolare questi mercenari con l’obiettivo di alterare l’equilibrio demografico nel paese. Essi, infatti, sono principalmente arabi sunniti che, oltre ad essere reclutati nelle forze di sicurezza, ricevono la cittadinanza.
Il Bahrain è un paese a maggioranza sciita (si ritiene che gli sciiti costituiscano il 60-70% dei cittadini, anche se stime esatte non esistono) in cui però la monarchia regnante degli Al Khalifa è sunnita. L’opposizione popolare sciita accusa la famiglia reale di cercare, attraverso l’importazione di mercenari, di aumentare la componente sunnita nel paese.
UN PAESE IN BILICO
La complessa composizione etnica del Bahrain è un ulteriore fattore che contribuisce a rendere più intricata la sua crisi attuale. Tale composizione è il risultato della storia del Bahrain, situato in una regione come quella del Golfo in cui sciismo e sunnismo si sono storicamente accavallati, e che è sempre stata in bilico fra mondo arabo e mondo persiano.
Il Bahrain fece parte dell’impero persiano safavide dall’inizio del XVII secolo alla fine del XVIII, ed è per questa ragione che ancora oggi alcuni iraniani rivendicano il Bahrain come “quattordicesima provincia” dell’Iran.
La famiglia Al Khalifa, d’altra parte, giunse in Bahrain nel 1783 provenendo dalla penisola araba, ed ha lontani legami con la famiglia degli Al Saud che oggi governa a Riyadh (e che a sua volta considera il Bahrain come una sorta di “giardino di casa” del regno saudita).
Il Bahrain, del resto, si trova a poche decine di kilometri dalla costa dell’Arabia Saudita, ed in particolare dalla sua Provincia Orientale, ricca di petrolio, ed a sua volta popolata da una minoranza sciita (discriminata dal governo sunnita di Riyadh) che ha stretti legami di parentela con gli sciiti del Bahrain.
E’ per queste ragioni che il Bahrain è facile ostaggio delle tensioni settarie fomentate da Riyadh da un lato, e da Teheran dall’altro.
Va però detto che al momento del ritiro della potenza coloniale britannica, nel 1971, la popolazione del Bahrain scelse a larga maggioranza l’indipendenza tramite un plebiscito, e che i cittadini sciiti del paese, al pari dei sunniti, si considerano arabi (ad eccezione di una minoranza che ha effettivamente origini persiane).
Va anche detto che, sebbene la maggioranza sciita sia certamente discriminata dalla monarchia sunnita al potere (lamentando un più elevato tasso di disoccupazione, e una discriminazione nella pubblica amministrazione, nel settore privato, ma anche nelle scuole e nelle università), molti sunniti si trovano ugualmente esclusi dalla forma di capitalismo clientelare che domina il paese.
E’ per queste ragioni che la protesta scoppiata nel febbraio 2011, nel più ampio contesto delle rivolte della cosiddetta “Primavera Araba”, fu eminentemente non settaria, e improntata alla rivendicazione di diritti civili e politici.
Sebbene i manifestanti fossero per ovvie ragioni in maggioranza sciiti, anche molti sunniti presero parte ai cortei, chiedendo maggiore equità sociale, un parlamento con maggiori poteri, ed in ultima analisi la trasformazione della monarchia in senso costituzionale.
REPRESSIONE E SETTARISMO DI STATO
Sebbene l’ala riformista della famiglia reale, guidata dal principe ereditario Salman, avesse tentato una mediazione (che fu sul punto di avere successo) con l’ala più moderata dell’opposizione rappresentata dal partito sciita al-Wifaq, i membri intransigenti della famiglia imposero la linea dura nelle strade portando a una radicalizzazione della protesta: molti manifestanti cominciarono a chiedere la creazione di una repubblica al posto della monarchia (pur mantenendo la protesta ampiamente entro i limiti della nonviolenza).
Ciò a sua volta determinò l’intervento militare delle forze saudite, che nel marzo 2011 entrarono nel paese sotto la bandiera della Peninsula Shield Force, dipendente dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC).
Ne è seguita una durissima repressione – caratterizzata da arresti su vasta scala, uccisioni, abusi e torture – la quale ha soffocato la fase acuta della rivolta, ma a tutt’oggi non è riuscita a sedare le proteste e a tacitare il malcontento.
Non è chiaro se l’intervento militare saudita fu invocato dall’ala dura della famiglia Al Khalifa, in particolare per scongiurare l’imminente accordo fra il principe ereditario e il partito al-Wifaq, o se fu imposto da Riyadh, essenzialmente con la stessa finalità.
La dinastia saudita – che è il terzo grande alleato degli Al Khalifa insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna, ma che in questo momento è certamente il primo per importanza ed influenza – vede senza dubbio l’eventuale trasformazione in senso democratico di una monarchia vicina (con la conseguente cessione di poteri da parte della famiglia regnante) come un tabù che non può essere infranto. Riyadh inoltre temeva un possibile “contagio” della rivolta alla sua Provincia Orientale.
Infine, la trasformazione del Bahrain in senso democratico significherebbe, agli occhi di Riyadh, l’ascesa di un governo sciita (e, nell’ottica settaria saudita, inevitabilmente filo-iraniano) alle porte di casa propria.
Comunque siano andate le cose a marzo dello scorso anno, uno degli ostacoli maggiori alla trasformazione democratica del Bahrain è rappresentato proprio dalle ingerenze saudite, in certo qual modo suggellate lo scorso giugno dal matrimonio tra un figlio di re Hamad del Bahrain e una figlia di re Abdullah dell’Arabia Saudita. La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che l’economia del Bahrain è legata a doppio filo con quella di Riyadh.
La repressione che ebbe luogo a partire dal marzo 2011 fu accompagnata da una durissima retorica di Stato, dalle forti tinte settarie. Manama e Riyadh di comune accordo accusarono l’opposizione sciita di essere composta da “terroristi al soldo di potenze straniere” – un’allusione non troppo velata all’Iran.
Sta di fatto che la rivolta del febbraio 2011 era una rivolta autoctona, ampiamente improntata a principi democratici e non settari, e non ispirata da Teheran, come ha confermato lo stesso rapporto BICI (con grande disappunto di re Hamad), e come ammise lo stesso segretario alla Difesa USA Robert Gates quando si recò in visita a Manama un mese dopo lo scoppio della rivolta.
L’opposizione ha certamente commesso degli errori, e forse il suo punto più debole è il fatto di essere guidata da leader religiosi, sebbene rivendichi semplicemente diritti civili e politici. Sia a causa della repressione interna, sia a causa della natura intrinsecamente sovranazionale dello sciismo, questi leader spesso si sono formati all’estero, in Iraq o in Iran (dove si trovano le città sante dello sciismo), e ciò senza dubbio ha offerto un appiglio al regime.
Ciò nondimeno, è stata la retorica settaria del regime, accompagnata dall’intervento militare dell’Arabia Saudita, ad aver polarizzato la società del Bahrain, contrapponendo sunniti e sciiti come mai era accaduto prima nella storia del paese.
REGIONALIZZAZIONE DELLA CRISI
L’intervento saudita, inoltre, lungi dal risolvere la crisi, vi ha effettivamente introdotto componenti nuove, in quanto ha suscitato l’aspra reazione di condanna degli sciiti in tutto il mondo arabo (oltre che in Iran), di fatto trasformando una sollevazione democratica locale in una contrapposizione settaria regionale.
L’opposizione nel paese è ora certamente più frammentata, ma anche più polarizzata secondo linee settarie, maggiormente incline alla violenza, e composta da una pletora di gruppi alcuni dei quali hanno cominciato ad operare in clandestinità, e ormai potrebbero essere davvero tentati di cercare alleanze all’estero.
Dal canto loro, i membri intransigenti della famiglia reale hanno l’appoggio di Riyadh e delle altre monarchie del Golfo, e probabilmente non vedono alcun motivo per impegnarsi in un dialogo serio con l’opposizione.
I timidi tentativi fatti dagli Stati Uniti in questo senso sono stati accolti con freddezza, se non con aperto risentimento. Il comandante dell’esercito Khalifa bin Ahmad Al Khalifa, ad esempio, ha senza mezzi termini accusato Washington di aver complottato a favore della rivolta attraverso le sue ONG.
La Casa Bianca, in effetti aveva in un primo momento appoggiato il dialogo fra il principe ereditario e l’opposizione. Dopo l’intervento saudita del marzo 2011, Washington aveva però mantenuto il silenzio, probabilmente per non danneggiare ulteriormente i rapporti con Riyadh, già deteriorati dopo che gli americani avevano abbandonato Mubarak, grande alleato dei sauditi.
Recentemente però, rendendosi conto che la situazione in Bahrain si sta pericolosamente deteriorando, gli Stati Uniti stanno di nuovo lavorando con discrezione a favore dell’apertura di un dialogo. Sebbene finora la presenza navale americana non sia stata messa apertamente in discussione dai manifestanti (un’altra conferma del fatto che la famiglia Al Khalifa non si trova di fronte a militanti ideologizzati e filo-iraniani), Washington sa che, se la situazione dovesse precipitare, le cose potrebbero cambiare anche per i suoi interessi nel paese.
Le recenti dichiarazioni di Maryam al-Khawaja, responsabile delle relazioni estere del BCHR e figlia di Abdulhadi al-Khawaja, suonano come un campanello d’allarme: “Per i manifestanti, gli Stati Uniti sono per il Bahrain ciò che la Russia è per la Siria”.
Di fronte all’intransigenza saudita e di buona parte della famiglia Al Khalifa, Washington sembra però avere poco margine di manovra, anche perché molti in questo momento soffiano sul fuoco delle tensioni regionali.
Le recenti dichiarazioni del leader sciita iracheno Muqtada al-Sadr, che ha improvvidamente invocato il boicottaggio del Gran Premio, hanno suscitato la pronta reazione della stampa di regime saudita, che non chiedeva di meglio per accusare nuovamente l’opposizione del Bahrain di essere in combutta con Teheran ed i suoi alleati.
La visita compiuta a metà aprile dal presidente iraniano Ahmadinejad ad Abu Musa, un’isola nel Golfo Persico occupata militarmente dall’Iran e contesa fra Teheran e gli Emirati Arabi Uniti, ha ulteriormente esasperato la situazione suscitando la condanna unanime dei paesi del GCC.
Sul quotidiano saudita al-Sharq al-Awsat, il commentatore Mshari al-Zaydi (come tanti prima di lui) ha scritto che l’Iran è la chiave di tutte le tensioni regionali, e che la crisi siriana e quella irachena sono solo “un sintomo del cancro iraniano”.
In questo contesto di polarizzazione settaria che va dalla Siria allo Yemen, ed in assenza di qualsiasi spiraglio di dialogo fra il governo e l’opposizione nel paese, vi è il grosso rischio che la crisi in Bahrain (su cui il Gran Premio ha momentaneamente attirato i riflettori dell’attenzione internazionale) sfoci in una nuova stagione di violenza, aggravando ulteriormente il già compromesso quadro regionale.