Scritto da: Alessandro Farulli
Fonte: http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=15384
Tra le poche cose che abbiamo capito di economia, e di economia finanziaria in particolare, c’è quella che nonostante ci si diverta a paragonare gli andamenti della borsa con gli eventi climatici, le due cose non abbiano proprio nulla a che spartire. Lo ricordiamo perché oggi Napolitano ha detto che si assiste a un «Ritorno al clima invernale anche sui mercati. Speriamo che possa essere rapidamente superato», paragonando così il martedì nero e lo spread in rialzo al freddo di questi giorni dopo il capolino delle temperature estive e una ripresina che aveva già fatto affermare al premier Monti che la crisi era superata.
La realtà delle cose è ben diversa, ma nulla ha a che farci dal nostro punto di vista la crisi spagnola, né i dati sulla disoccupazione americana, né la discussa e discutibile riforma del lavoro italiana annacquata dopo lo scontro tra le parti. O meglio, per i mercati queste sono certamente cose che creano tensione e minano la fiducia, tuttavia il nodo è la crescita. Lo è in quanto tale e lo è in quanto totem. I mercati vorrebbero rigore dei conti pubblici e crescita spinta – che ricorda molto la botte piena e la moglie ubriaca – visto che per ottenere i primi, non si esce da un sacrificio della seconda e viceversa.
Uno “stato stazionario” come dice Guido Vaciago sul Sole24Ore di oggi è percepito «dai suoi cittadini come un gioco a somma zero dove inesorabilmente se qualcuno cresce è ‘a spese’ di qualcun altro: dove continuamente ci sono vincitori e vinti. Insomma, una Unione in cui conviene essere stati, ma non conviene più restare in futuro». E questo è il caso dell’Italia e dell’Europa e non è una ‘percezione’, visto che dal default greco la Germania finora ci ha solo guadagnato…
Il paradosso del paradosso è però un altro: quello che i mercati volevano, come detto, conti in regola e crescita, è impossibile da ottenere e i primi a capirlo sono proprio i mercati, che infatti hanno portato giù le borse e su lo spread. Può darsi che serva una nuova iniezione di moneta oppure, come dice Andriani sull’Unità, lavorare con l’inflazione. Tuttavia il problema resta, lo ribadiamo, la crescita.
Questa da tempo almeno in Italia è un lumicino e tra l’altro è la normalità delle economie mature.
Non è pensabile che l’Italia un giorno possa correre con percentuali tipo Cina e questa è l’unica cosa che tutti hanno capito. Bisogna quindi cambiare il modello di sviluppo, perché la strada della crescita è un cul de sac. Se non si declina cosa e come deve crescere, con il Pil siamo spacciati. E non è solo una questione di occupazione, perché che la crescita porti occupazione quando la si vuole ottenere con l’aumento dell’età pensionabile e della produttività, si rischia esattamente quello che sta già avvenendo: emorragia di posti di lavoro e basta.
Non si dica poi come fanno Giavazzi e Alesina che il problema sono gli investimenti esteri perché un imprenditore non mette i soldi in uno Stato dove a decidere sulle sorti dei suoi lavoratori ci pensa un giudice e non lui stesso, perché l’Ikea che sposta due produzioni dall’Asia proprio in Italia dimostra esattamente il contrario (e non cambierebbe il ragionamento neppure se tra un mese l’Ikea rivedesse la sua decisione, perché semplicemente il mercato funziona così e a licenziare si è sempre in tempo).
Napolitano quindi ha ragione quando afferma «C’è urgente bisogno di dare maggiore attenzione al disagio sociale che risulta chiaramente dai dati e che coinvolge la famiglia, i nuovi poveri e i giovani non occupati», un fenomeno che «non può non allarmarci» e dunque «se ne tenga conto in Parlamento al momento in cui si discuterà la riforma del mercato del lavoro».
Come ha ragione quando aggiunge che di fronte alla crisi che pare riaccendersi «non basta invocare la crescita, come se non ci volesse altro che volontà e determinazione», una invocazione «talvolta un po’ fastidiosa e vacuamente polemica, come se ci fossero sordità al riguardo e fosse chiuso il capitolo dell’austerità». Il fatto, ha concluso il presidente della Repubblica, è che «non c’è crescita che possa reggere senza l’innovazione in tutti i suoi aspetti e non meno importante è la coesione sociale». Ma qui invece non convince.
Dal nostro punto di vista il mondo è cambiato, lo abbiamo detto tante volte, si è spostato l’asse terrestre e non si torna indietro. I Paesi dell’Ue devono fare i conti con la crescita dei Brics e dei Paesi in via di sviluppo universalmente intesi consci che la politica depredatoria di energia e materia portata avanti dall’occidente e che gli ha permesso di ottenere i successi del passato, è semplicemente finita.
Bisogna dare nuove regole a tutto il sistema e per di più non le dettiamo e detteremo più noi. Servono accordi internazionali e – come spiega il Wuppertal Institut – sia i vari campi della produzione (cosa e come si produce) sia l’entità e poi gli impieghi dei profitti devono superare il banco di prova della sostenibilità. Dobbiamo uscire dalla logica dell’economia finanziaria, per riappropriarci dell’economia reale e riconvertirla all’ecologia. Questo aiuterebbe l’economia e l’ambiente, ma attenzione, non è detto che porti maggiore benessere e più occupazione. Almeno non quello che si intende oggi, ovvero derivato dall’accumulazione di merci. Bisognerà far prevalere il ben-essere sul ben-avere e la crisi quindi – ancorché sistemica oppure proprio perché sistemica – è ancora un’opportunità.
Come dice sempre il Wuppertal Institut «le opportunità della modernizzazione ecologica sono nel ridimensionamento dei mercati di attività ecologicamente rischiose e nella cresciuta selettiva dei mercati dei beni sostenibili del futuro». Cosa serve dunque? «Quello che serve alla sostenibilità della vita può e deve crescere (…) dovrà invece diminuire ciò che favorisce lo sfruttamento eccessivo della natura, nonché ciò che genera e trasferisce rischi su altri soggetti e ciò che danneggia la coesione sociale». Ciò che può crescere è l’efficienza energetica e dei materiali, energie rinnovabili, agricoltura biologica, commercio equo e solidale. Cosa deve ridursi? «Il traffico stradale e aereo ad alta intensità, l’energia nucleare, i prodotti finanziari speculativi o dell’indebitamento dei paesi poveri».
Può l’Italia percorrere questa strada da sola? No, ma può partire e vedere chi la segue. Ribadiamo che una grande opera di manutenzione del territorio affiancata da un’industria manifatturiera che sfrutti la materia seconda intesa come materia rinnovabile sono due obiettivi alla portata e che certamente danno un contributo allo sviluppo e un’idea almeno di un modello di sviluppo diverso.
Un modello fatto anche di una nuova equità sociale e di un’ecologia della politica (altrimenti non è possibile una politica ecologica) delle quali né il governo tecnico di Monti che applica le indicazioni di mercati schizofrenici, nè i partiti immersi negli scandali dell’insostenibilità della politica del pensiero unico, sembrano in grado di prospettare.