Rendi la Patria, Dio; rendi l’Italia… di Giampaolo Rugarli
All’incirca trent’anni fa, ero un giovane praticante nello studio dell’avvocato Antonio Pinto: così ebbi occasione di conoscerlo e di ammirarlo, sebbene non condividessi le sue idee. Non tutte. Lui era in un mare di guai e, purtroppo, finì addirittura al fresco… ma non è di questo che vorrei raccontare, le vicende di cronaca hanno scarso interesse, soprattutto quando il tempo s’incarica di collocare le cose nella giusta prospettiva. Vorrei parlare della Storia, con la ‘S’ maiuscola, e della Storia, Eddy, come lo chiamavano gli amici, era stato un protagonista. Sebbene avesse affidato la sua testimonianza a un libro, non gli dispiaceva ricordare, e io lo ascoltavo mentre rievocava il suo dramma di militare e di italiano. Aveva ventotto anni, allora. La Sua voce era sottile, garbata, ed era difficile immaginare che, con quella voce, avesse impartito ordini, raccomandazioni, rabbuffi. Eppure…
Quando – l’8 settembre del 1943 – giunse la notizia dell’armistizio, Eddy comprese subito che sarebbe stato lo sfacelo. Quello sfacelo, parecchi anni dopo, fu riassunto con ironica amarezza nel titolo di un film, diretto da Luigi Comencini e interpretato da Alberto Sordi: Tutti a casa. Lui non andò a casa. Indossava una divisa e, al termine di un viaggio avventuroso, giunse a Brindisi dove era il re e il comando supremo di un esercito a pezzi. Da radio Monaco tornò a farsi sentire Mussolini: «Camicie nere, italiani e italiane… mentre rivendichiamo in pieno le nostre responsabilità, vogliamo precisare quelle degli altri, a cominciare dal Capo dello Stato… È la stessa dinastia che, durante tutto il periodo di guerra, pur avendola il re dichiarata, è stata l’agente principale del disfattismo e della propaganda antitedesca… Sono ora più che mai convinto che casa Savoia ha voluto, preparato, organizzato anche nei minimi dettagli il colpo di Stato, complice ed esecutore Badoglio, complici taluni generali imbelli e imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo… Date queste condizioni, non è il regime che ha tradito la monarchia, ma è la monarchia che ha tradito il regime… ».
Era un discorso che non prometteva niente di buono. Roma, massacrata dalle bombe, aveva smesso di essere caput mundi. La capitale era stata trasferita a Brindisi, una volta porta dei viaggi verso il favoloso Oriente, e ora base militare di una guerra in cui il nostro ruolo si era capovolto. Lui, in attesa dei nuovi ordini, si aggirava tra le case dirute, tra le bancarelle miserabili e, sul volto della gente, leggeva non più che sgomento. Giungeva sino alla colonna e al moncone di colonna che segnavano il termine della via Appia, la strada seguita da Orazio per arrivare a Brindisi. E il poeta avrebbe raccontato in una satira il suo giocoso pellegrinaggio. Eddy si teneva compagnia con i ricordi di scuola e respirava nell’aria l’odore del mare: lo pungeva un pizzico di nostalgia per il profumo delle sue montagne. Più lieve, più arcano.
I nuovi ordini lo tolsero a Brindisi e lo portarono ad Algeri, a scuola di paracadutismo. C’era bisogno di un informatore che, al di là del fronte attestato tra Napoli e Roma, fornisse notizie sulle forze nemiche. Le forze nemiche adesso erano quelle tedesche, senza considerare il contingente militare che, al nord, stavano cercando di ricostituire. Quei soldati, quando lui li conobbe, gli ispirarono solo malinconia: non furono mandati a combattere ma furono impiegati in bassi servizi di polizia.
Il 5 dicembre del 1943 Eddy e altri vennero paracadutati nelle campagne del biellese. La data è singolare: Giovanni Battista Perasso, detto Balilla, in quel giorno del 1746 aveva dato il via alla rivolta dei genovesi contro gli austriaci e i fascisti di quel giorno ne avevano fatto una ricorrenza. Ma forse (lui soggiungeva con un sorriso) sarebbe stato meglio ricordare che il 5 dicembre 1791 era morto Mozart. Atterrò in una vigna. Era stata lanciata anche la radio che doveva essere strumento della sua attività di informatore, ma il prezioso apparecchio andò perduto. Lui non si scoraggiava: si disse che avrebbe cercato di sostituire la ricetrasmittente e che, nel mentre, avrebbe fatto la guerra ai tedeschi. La gente del posto lo aiutò: lo nascosero e lo seguirono nelle azioni di guerriglia. Lui fissò la sua base nel castello di Valdengo, nel vercellese. Di quei tempi una radio era ancora uno strumento rudimentale e, con un po’ di fortuna, si poteva provare a costruirne una. Alcuni volenterosi promisero di aiutarlo. La difficoltà più grossa da superare era il reperimento della galena, un minerale indispensabile per destare dal loro sonno le onde elettromagnetiche. Alla fine la galena saltò fuori, e un apparecchio piuttosto rozzo fu pronto. Era necessario il collaudo. Conveniva sperimentarlo all’aria aperta, per avere maggiori probabilità di successo: Eddy ordinò che si andasse molto lontano dall’abitato e che si operasse protetti dalle tenebre. Il mese di febbraio è rigido, tra Vercelli e Biella: e in più c’erano il freddo della notte e l’umidità della brughiera. Erano in quattro o cinque, e tutti battevano i denti.
Salì la luna. Finché era stata bassa sull’orizzonte, aveva sprigionato una modesta luminosità: era un grosso disco giallo che chiudeva il mondo. Ma, con il passare delle ore, il disco si era arrampicato in alto e, quello che aveva ceduto nelle dimensioni, lo aveva restituito nella luce: algida, bianca con venature di azzurro, acuminata (ogni raggio era una puntura di spillo). «Peggio che se fossimo di pieno giorno» Eddy commentò. «Sarebbe meglio chiudere bottega – suggerì il radiotelegrafista, un tipo prudente – e magari riprovare tra un paio di settimane. Stanotte è peggio che se fossimo nudi». «Nudi o vestiti – lui sbottò – nemmeno ci penso di riprovare tra un paio di settimane. Non c’è tempo da perdere». «Se ci beccano – protestò il radiotelegrafista – non abbiamo neppure il tempo di recitare una preghiera. Finiremo dritti dritti all’inferno». Eddy lo rimbeccò: «Sarà meglio che starcene qui a battere i denti. Basta con le chiacchiere, amico mio. Fa quello che devi, e vediamo se mi riesce di parlare con il Comando».
Non gli riuscì. La radio emise un sibilo, poi un ronzio, alla fine gracchiò meglio di un corvo. Non si sentiva altro. Tutt’a un tratto il trabiccolo tornò a fischiare: fortissimo, squarciò la notte, come se un transatlantico stesse per salpare dai gerbidi. Lui si incavolò, anzi si imbestialì. Prese a calci la radio, la distrusse. «Ne dovrai fabbricare un’altra – disse al radiotelegrafista – con più criterio. Non mi serve la sirena di una nave, mi basta parlare con il Comando». «Almeno lasciami recuperare la galena» brontolò il radiotelegrafista. Fortuna che i brigatisti giravano da un’altra parte, li comandava Tarcisio Cavaliere e non li portava mai al posto giusto. A tutti prometteva piombo nei denti, ma raramente manteneva i suoi propositi truculenti. Eddy e i suoi amici tornarono indisturbati ai loro rifugi. Quando provarono la seconda radio, era una notte illune. E faceva meno freddo.
Però i brigatisti erano di ronda, sempre più spesso. C’era stata una scaramuccia, e qualcuno ci aveva rimesso la pelle, da una parte e dall’altra. Ammazzarsi tra italiani era terribile, lui commentò. Purtroppo era una costante della storia patria giocare ai guelfi e ai ghibellini, magari al servizio degli stranieri… L’unità, voluta dal Risorgimento e dalla dinastia sabauda, non era ancora diventata sentimento comune, sentimento di tutti, e l’agonia della guerra rivelava orribili lacerazioni. I versi, scritti da Giosuè Carducci per celebrare il Piemonte, continuavano a essere maledettamente veri, sciaguratamente attuali: «Rendi la Patria, Dio; rendi l’ltalia agli italiani». Sì, era proprio così, c’era ancora da restituire la Patria agli italiani. O gli italiani alla Patria?
Eddy mi confessò di aver avuto tutto il tempo di affidarsi a queste e ad altre malinconie, in quella notte senza luna: i fascisti non si mostrarono, Tarcisio Cavaliere perlustrava in risaia, e la radio si associò al detto che il silenzio è d’oro. Non un sifolo, un sospiro. Se Eddy e i suoi compagni avessero preteso di dare voce a una tomba, avrebbero ottenuto un risultato migliore. Dopo una serie interminabile di inutili tentativi, il radiotelegrafista annunciò: «Non si sente niente». Lui replicò con stizza. Non gli capitava quasi mai di essere volgare, le parolacce non appartenevano al suo repertorio, doveva essere molto arrabbiato. «Insomma – domandò a brutto muso al radiotelegrafista – sei capace o non sei capace di costruire un apparecchio ricetrasmittente?». «Forse non sono capace» mormorò a capo basso il poveraccio. «D’accordo – Eddy dichiarò – le cose meglio saperle e non farsi illusioni. Andrò a Genova. A Genova c’è una installazione radio funzionante, e finalmente potrò comunicare». «A Genova?» esclamò il radiotelegrafista. «Come ci arriverai? Ti prenderanno appena ti metterai in viaggio… e t’ammazzeranno. Tu sei pazzo da legare». «Noi due siamo pazzi da legare – lui corresse – perché tu verrai con me… ». A Genova arrivarono tutti e due, indisturbati o quasi. Andarono in treno. Vi furono un paio di controlli, ma lui attaccò a parlare in tedesco e i brigatisti non osarono neppure domandare i documenti. «Che cosa c’era da dire, in tedesco?» volli sapere. «Avrei potuto brontolare qualsiasi scemenza – sorrise – tanto non capivano nulla di quello che sentivano… A intimidirli bastava la lingua teutonica: «Ich bin an solchen scharfen Geschmacke nicht gewohnt… ». Non sono abituato ai sapori così forti, abbaiai. Una cretinata da manuale di conversazione pratica. In effetti, se m’avessero beccato, i sapori sarebbero stati fortissimi: per fortuna credettero chi sa che, pensarono che fossi un ufficiale tedesco in borghese, e se ne andarono. Alla gioia dello scampato pericolo, si sommava il gusto dello scherzo».
A Genova la missione parve avere buon esito e fu stabilito il contatto radio con il Comando Alleato nel meridione. Purtroppo, a causa di una delazione, vennero arrestati prima a Torino e poi nella stessa Genova i dirigenti delle organizzazioni clandestine. Eddy in un primo tempo evitò miracolosamente la cattura, poi cadde nelle mani dei fascisti. Forzò le sbarre della prigione, fuggì, raccontò con malcelato orgoglio: «… sulle cantonate di Genova veniva pubblicato il mio ritratto, ricavato dai documenti sequestrati, con le generalità, i contrassegni e ventimila lire di premio a chiunque desse qualsiasi indicazione sul mio conto». La taglia fu poi elevata a centomila lire e a un milione.
Ho omesso molte vicende, molti aspetti non secondari, ho semplificato alcuni episodi e ho inventato quando era lecito inventare (chi volesse saperne di più, può leggere i suoi libri, specialmente Guerra senza bandiera): in realtà ne rievoco la figura non per le sue gesta, che fanno di lui un D’Artagnan fuori stagione, ma per le tremende, intime contraddizioni che lui e quelli della sua generazione furono chiamati ad affrontare e a risolvere. Il coraggio, con cui veniva guardato il sacrificio supremo, forse serviva a rendere bella e dignitosa la scelta del ribellismo contro il tedesco invasore (d’altro canto, la scelta opposta era farsi sgherri o quanto meno servi della Gestapo come era accaduto a Tarcisio Cavaliere), ma non cancellava la tragedia di un Paese che, nel volgere di pochi anni, era stato costretto a rinunciare ad ambizioni esagerate (e sbagliate) ed era stato ridotto a campo di battaglia dove combattevano eserciti stranieri.
I dirigenti, arrestati a Genova e a Torino, furono processati. Un processo serve o dovrebbe servire per cercare la verità, non per confermarne una precostituita. Vi furono condanne a morte, all’ergastolo e a pene detentive minori. Ma così accadeva non di rado. Vi fu persino un’assoluzione per insufficienza di prove. La varietà e la diversità delle sanzioni spolverava di legalità un sopruso. Il 5 aprile 1944 furono fucilati in sette: alcuni professionisti, un generale, un operaio. Lasciarono toccanti lettere di congedo dai loro cari e dalla vita. Il rito espiatorio – sulla falsariga di tanti altri processi-farsa – non intimidì e non spaventò nessuno, rese solo evidente l’odio che avvelenava la vasta parte d’Italia invasa dai tedeschi.
Eddy mi chiedeva se mi era mai capitato di vivere in un mondo avvolto dall’odio. Era una domanda retorica, lui sapeva che un’esperienza così non m’apparteneva e, senza aspettare la mia risposta, ricordava che al tempo della repubblica di Salò l’odio era diventato quasi tangibile. La gente era sempre più cupa. C’era poco da mangiare, l’elettricità era razionata, d’inverno mancava il carbone per riscaldarsi, e uscire di casa era sempre un rischio (la sera scattava il coprifuoco, e non si poteva allontanarsi dal proprio tetto), l’allegria era proibita per disposto di legge, era proibito ridere, cantare, ballare… Accadeva che ignari bambini, andando a scuola, inciampassero in un mucchio di cadaveri abbandonato per la strada ad ammonimento degli italiani: un cartello spiegava che quei morti erano vili banditi, trucidati perché colpevoli di aver rinnegato la Patria. Era una bella lezione, senza dubbio. E, di tempo in tempo, marciavano per le strade le legioni in camicia nera… Quei soldati sapevano di essere odiati, e odiavano a loro volta: in una spirale che si avvitava, suggerendo comportamenti sempre più feroci.
Eddy, rievocando quei terribili venti mesi, soffriva, ma lo tormentava anche un dubbio che non osava esprimere se non per allusioni, se non per mezze parole. Possibile che l’Italia del ventennio fosse passata senza lasciare alcun segno? Che fosse possibile ritornare, come se nulla fosse accaduto, all’epoca di Giolitti, quando disinteresse e merito venivano considerati il miglior programma di governo? Sì, scandali c’erano stati anche tra Otto e Novecento ma, nel piccolo mondo di allora, nessun pubblico rappresentante avrebbe osato confondere il proprio personale interesse con l’interesse di tutti. Era un mondo che faceva tutt’uno della forma e della sostanza: monarchia, nobiltà e cultura garantivano lo stile, ossia il modo di vivere degnamente. Questo fragile castello di carte adesso era in pericolo?
Eddy fu catturato ancora, e ancora scappò. Pochi giorni prima della cattura definitiva, quando a liberarlo provvide la fine della guerra, riapparve Tarcisio Cavaliere, in divisa da brigatista ma disarmato. Era molto in disordine, come se non avesse dormito o avesse percorso un lungo cammino. Era sporco, spettinato, lacero. Eddy lo accolse sorridendo: «Sei venuto ad arrestarmi?» «Sono venuto ad arruolarmi» rispose Tarcisio, «voglio essere partigiano anch’io». «Come sarebbe?» lui si stupì. «Girano brutte chiacchiere sul tuo conto e, se non mi ripugnasse la giustizia sommaria, dovrei scaricarti addosso il mitra». «Sbaglieresti» protestò Tarcisio «e sarebbe una bella cosa se tu non dessi ascolto alle chiacchiere. Di questi tempi è facile calunniare un galantuomo. La divisa io ho finto, perché così potevo essere meglio utile alla causa della democrazia e della libertà. Quanti ne ho salvati, di voi! E al tempo in cui, con o senza luna, collaudavi le tue scassatissime radio, chi credi che ti abbia salvato la ghirba? Meriterei una medaglia, e invece vengo trattato da traditore. Povera Italia, se questo è il futuro che si va preparando!».
Eddy detestava la violenza e il sangue e, benché Tarcisio non lo avesse convinto, ne tenne per buono il racconto. Lo arruolò tra i partigiani e si preoccupò che gli amici lo rifocillassero. Che gli facessero bere un bicchiere di vino. Pensò che, almeno su un punto, Tarcisio non aveva mentito: il futuro sarebbe stato molto difficile se la gente avesse cominciato a fingere di credere. Un brivido gli segnalò il suo smarrimento: aveva accolto tra i suoi un uomo che si accingeva a diventare un finto democratico. Quante altre conversioni vi sarebbero state a guerra finita?
Eddy fu fedele a se stesso sino in fondo o forse fu fedele a Ponson du TerraiI, il cui eroe, Rocambole, doveva aver acceso la sua fantasia di ragazzo. Ai primi di febbraio del 1945 si trasferì a Milano. Obiettivo: la liberazione di Ferruccio Parri. E quasi ci riuscì, ma purtroppo fu bloccato dalle SS che lo tradussero prima a San Vittore, poi a Verona dove fu detenuto in una cella sotterranea del loro comando generale. Il 23 aprile fu trasferito in un campo di prigionia, a Bolzano: scappò alla testa di un gruppo di internati politici e, passando per la Svizzera, tornò a Milano. Ma la guerra era finita, ed era finita la stagione della macchia, degli agguati, dei conflitti a fuoco, delle carceri, delle fughe, dell’avventura… Il passato delle poesie di Carducci e anche di Guido Gozzano non si sarebbe ripetuto, mai più; sarebbe iniziata una nuova epoca, i cui contorni si sarebbero precisati a poco a poco. Con il passare degli anni. La monarchia fu bandita e l’Italia volle essere una repubblica.
Per Eddy fu un epilogo doloroso, ma (mi confessò) ne aveva avuto il presagio a San Vittore: casualmente, aveva letto un articolo di tale Elio Solari, pubblicato l’8 aprile 1944 su Il Regime Fascista, il quotidiano di Roberto Farinacci. L’articolo lo aveva talmente impressionato che, pur vincendo l’intima repulsione, lo aveva espunto dal giornale e lo aveva conservato. Me lo mostrò e mi consentì di farne una copia. Non è il caso di trascriverlo nella sua interezza, tuttavia alcune battute meritano di essere citate: «Ho l’impressione che la stampa repubblicana sia ancora troppo longanime con Vittorio Savoia. Egli meritava la gogna cinese. Lo si è esposto soltanto a una berlina da ragazzi. Lo si è chiamato Spiombi e Bazzetta, alludendo a qualche sua menoma disgrazia fisica, che ha però ben altro riscontro nelle sue enormi, nelle sue mostruose magagne morali… Un giorno, senza dubbio, il suo testone di rachitico malvagio apparirà nei testi di criminologia: e si consulteranno le sue bozze craniche, i suoi zigomi anormali, le sue mascelle da cercopiteco, le sue gambette storte, come tante stimmate degenerative; e si concluderà che per lui… l’insensibilità morale, l’ingratitudine, la fellonia, e insieme la ferocia, l’avarizia, la supponenza caparbia e imbecille, sono derivate tutte, in primo luogo, dalle disgraziate condizioni corporali. Il sangue guasto ha determinato la vita immonda. S’è lasciato vivere un aborto di carne. E s’è avuto l’aborto di un destino… La sua doppiezza, la sua rinnegazione, la sua fuga, appartengono alla tragedia e non alla commedia. Centomila morti fremono nelle loro fosse; quaranta milioni di vivi soffrono sulla terra di cui egli ha tradito le sorti, dopo averne assunto, con tutti i diritti e tutti i benefici della corona, la responsabilità. Non una ma cento volte fucilabile, la berlina a cui oggi lo si mette è poco in confronto al plotone d’esecuzione che lo aspetta. Che tarda l’Italia repubblicana per dichiararne, oltre la decadenza del trono, la condanna a morte?… egli deve essere fulminato nella schiena. Né credo che l’Abbazia savoiarda, dove i Savoia sono sepolti, abbia mai a reclamare la sua salma. Coi suoi antenati, che conobbero la via dell’esilio, non quella del disonore, il nano fedifrago non ha da spartire neppure l’onore del sepolcro. Lo si getti, morto, nella fossa comune di un reclusorio».
L’Italia volle esser repubblicana e tuttavia non condannò a morte Vittorio Emanuele III. Che conobbe la via dell’esilio. Quanto al disonore, si affidò al giudizio della Storia. Morì alla fine del 1947. Non fu sepolto nella fossa comune di un reclusorio. Eddy sottolineava la violenza e la volgarità dei toni di Elio Solari, osservava che il re, pur avendo dato mediocre prova di se stesso, era comunque un simbolo del nostro passato, della nostra civiltà, delle nostre tradizioni. I simboli si discutono e, se occorre, si contestano, ma non si imbrattano. La prosa del gazzettiere segnalava che qualcosa di torbido stava per entrare nel costume: volgarità e vituperio in luogo del dialogo, prepotenza in luogo del rispetto, banalità in luogo della cultura. L’Italia era stata restituita agli italiani, offesa: non solo nelle sue case, nei suoi monumenti e nei suoi opifici colpiti dalle bombe (i morti erano stati poco meno di cinquecentomila, tra militari e civili), era stata ferita nella sua millenaria vicenda di maestra d’arte, di scienza, di sapere. Fu per queste ragioni che Eddy si allontanò dalla patria per la quale aveva combattuto: non si riconosceva nel presente, era un gentiluomo. Abbracciata la carriera diplomatica, per una ventina d’anni vagò per il mondo.
Ebbe fastidi giudiziari, al suo ritorno; ma ho già avvertito che questo capitolo è estraneo alla mia testimonianza. Aveva la cattiva abitudine di dire quello che pensava, era incapace di fingere: in altra epoca avrebbe dovuto affrontare un duello alla settimana. Tarcisio Cavaliere non lo sfidò, sebbene Eddy ne avesse riassunto il cursus honorum con pungente ironia. «Una stupenda carriera» dichiarò in una intervista. «Sindaco di Nonsodove, Presidente della Banca Nonsopiùquale, deputato, commissario governativo dell’Associazione Vessillo Tricolore… Non è vero che tutta l’Italia sia stata sconfitta nell’ultimo conflitto: Tarcisio Cavaliere ha vinto la guerra». |