Fonte: http://www.telegraph.co.uk/
Traduzione: http://vocidallestero.blogspot.it/
Sul Telegraph Ambrose Evans-Pritchard analizza le tendenze dell’economia globale: USA e Cina in contemporanea intraprendono politiche restrittive per contrastare le bolle, i paesi emergenti si difendono alzando i tassi per evitare fughe di capitali, e l’unica senza spazi di manovra rimane l’Europa, che con le sue politiche monetarie ortodosse ha già abbandonato le difese rispetto alla deflazione e alla esplosione del debito. Sorge spontanea la domanda finale: perché stanno lasciando che accada…?
I mercati emergenti rappresentano ormai la metà dell’economia mondiale, quindi ci stiamo muovendo in acque inesplorate. Dopo la crisi-Lehman circa 4000 miliardi di dollari di fondi esteri si sono riversati sui mercati emergenti, gran parte dei quali da allora si muovono sulla strategia del “momentum money”, che arriva tardi alla festa. Il FMI dice che circa 470 miliardi di dollari sono direttamente legati al QE della Fed. “Non sappiamo quanto di questo denaro stia per uscire di nuovo da questi mercati, o quanto velocemente,” ha detto un funzionario del Fondo.
Martedì notte la Banca Centrale della Turchia ha preso misure drastiche per fermare la fuga di capitali, raddoppiando il suo tasso di riacquisto dei bond dal 4,5% al 10%. Questo porterà in breve tempo l’economia a un punto morto e, in ultima analisi, può rivelarsi futile come la difesa ideologica della sterlina da parte della Gran Bretagna nel settembre 1992 (uscita dallo SME, ndT).
Mercoledì il Sud Africa ha alzato i tassi di mezzo punto al 5,5% per difendere il “rand” e l’India martedì li ha alzati di un quarto di punto all’8%, tutti costretti a stringere i denti con la crescita che va esaurendosi. Il Brasile e l’Indonesia ci sono già dentro da mesi, a tentar di frenare un deprezzamento della valuta che rischia di andar fuori controllo da un momento all’altro.
Altri paesi sono messi meglio – soprattutto perché le loro partite correnti sono in surplus – ma perfino loro stanno perdendo spazi di manovra. Il Cile e il Perù avrebbero bisogno di tagliare i tassi per contrastare il crollo del prezzo dei metalli, ma in questo clima di tensione non osano farlo.
La Cina sta marciando al ritmo proprio, con un conto capitale chiuso e riserve da 3800 miliardi di dollari, ma anch’essa sta trasmettendo un potente impulso deflazionistico a tutto il mondo. L’anno scorso la Cina ha investito altri 5000 miliardi di dollari in nuovi impianti e investimenti fissi – quanto gli USA e l’Europa insieme – inondando l’economia globale di altra capacità in eccesso.
I mercati hanno una fede commovente nel fatto che gli stessi responsabili della spettacolare bolla del credito da 24000 miliardi di dollari – una volta e mezza più grande del sistema bancario degli Stati Uniti – stavolta riusciranno a sgonfiare la bolla con delicatezza, con un’abilità che è mancata alla Fed nel 1928, alla banca del Giappone nel 1990 e alla Banca d’Inghilterra nel 2007.
Manoj Pradhan, di Morgan Stanley, dice che la Banca Centrale della Cina sta cercando di rientrare dai debiti e alzare i tassi allo stesso tempo, cosa che “amplifica i rischi per la crescita”. Si tratta di un’impresa eroica, come effettuare interventi chirurgici senza anestesia. È l’esatto opposto di quello che ha fatto la Fed dopo il 2008, quando il QE ha aiutato ad assorbire lo shock. Morgan Stanley dice che il 45% di tutto il credito privato in Cina deve essere rifinanziato nel corso dei prossimi 12 mesi, quindi allacciate le cinture.
Inoltre, la Cina sta facendo fatica a mantenere floride le sue industrie al tasso di cambio corrente. Patrick Artus, di Natixis, dice che i salari in continuo aumento – e la caduta di produttività – fanno sì che ora produrre l’Airbus A320 a Tianjing costi il 10% in più che produrlo a Tolosa.
Le implicazioni sono evidenti. La Cina prima o poi può tentare di ribassare lo yuan per mantenere le sue quote di mercato, al di là di ciò che dicono al Congresso degli Stati Uniti, in parte per fermare il Giappone che sta guadagnando terreno grazie alla sua svalutazione del 30% con l’Abenomics. Albert Edwards della Société Générale dice che questo potrebbe rivelarsi lo shock deflazionistico finale, in confronto al quale la crisi asiatica del 1998 scomparirebbe.
L’Europa ha già lasciato crollare le sue difese dietro una linea Maginot di politica monetaria ortodossa. I dati Eurostat mostrano che Italia, Spagna, Olanda, Portogallo, Grecia, Estonia, Slovenia, Slovacchia, Lettonia, così come i paesi con il cambio ancorato all’euro come Danimarca, Ungheria, Bulgaria e Lituania, sono entrati tutti in piena deflazione sin dal mese di maggio, come la pressione fiscale si è inasprita. I prezzi sono in caduta in Polonia e in Repubblica Ceca dal mese di luglio, e in Francia dal mese di agosto.
Prima di Natale Mario Draghi della BCE ha parlato della necessità di un “margine di sicurezza” contro la deflazione, ma ora sembra stranamente passivo, come sottomesso alla Bundesbank. A Davos l’ho sentito ripetere due volte – spento, senza convinzione – che l’inflazione core è semplicemente tornata dove era nel 1999 dopo la crisi asiatica e nel 2009 dopo la crisi-Lehman, e quindi va bene.
Ma non siamo in circostanze neanche lontanamente paragonabili. Questi due eventi si sono verificati all’inizio di un nuovo ciclo di credito. Oggi siamo quasi al quinto anno del vecchio ciclo – che è già molto maturo – e l’80% dell’economia globale applica misure restrittive o tagli agli stimoli. Per come stanno le cose, la prossima recessione spingerà il sistema economico occidentale oltre la soglia della deflazione.
Gli Stati Uniti hanno un margine leggermente maggiore, ma non molto. La crescita dell’aggregato monetario M2 sta rallentando anche più velocemente di quanto fatto nei nove mesi prima del crollo di Lehman nel 2008, ma allora la Fed non si interessò più di tanto di questi dati, quindi è fin troppo possibile che ripeta lo stesso errore. La Fed sta sicuramente sfidando la sorte, con 10 miliardi di dollari di bond tapering ad ogni meeting, in un contesto di deflazione incipiente, come continua a sottolineare il capo della Fed di Minneapolis, Narayana Kocherlakota.
Quelli che pensano che la deflazione sia innocua dovrebbero ascoltare Haruhiko Kuroda della banca del Giappone, che ha vissuto 15 anni di prezzi in calo. I profitti aziendali si sono prosciugati. Gli investimenti in tecnologia si sono atrofizzati. L’innovazione è svanita. “Ha provocato una mentalità molto negativa, in Giappone,” ha detto.
Il Giappone ha avuto i più alti tassi di interesse reali del mondo avanzato, cosa che ha causato una spirale di interessi composti che ha portato l’onere del debito a crescere, mentre il PIL nominale si contraeva.