Scritto da : Anna Nicoletti
Fonte: La patatina fritta
Questa è la storia di un moderno businessman…
Dopo tre colloqui in cui mi fanno sputare sangue e mi strizzano come una spugna, mi assumono per una posizione di tutto rispetto a tempo indeterminato nella sede veronese di una delle più importanti multinazionali di consulenza direzionale, servizi tecnologici e outsourcing.
Io che vivo di informatica, che spesso mi addormento con il computer sulla pancia, la tv e la luce accesa, che ho mille idee per la testa e vorrei rinominare Google come Google FC, dalle iniziali del mio nome e cognome, penso che questa per me sia probabilmente una grande occasione.
Provengo da una realtà altamente strutturata in cui imparo a lavorare con metodo, collaboro con un team straniero alla realizzazione di un importante progetto, parlo più in inglese che in italiano, anzi qualcuno mi dice che non sono quasi più capace di esprimermi nella mia lingua.
Non sono del tutto sicuro di voler affrontare un cambiamento: sto bene; per quanto possibile riesco a concludere la giornata lavorativa ad un orario decente , mi posso autogestire , ma non basta. Il contratto è rinnovabile solo di anno in anno, sono sempre appeso ad un filo e poi in lontananza inizia a tirare aria di crisi in azienda, per cui i primi ad essere fatti fuori saranno i consulenti a progetto. Comincio a fare bene i miei calcoli, devo valutare la situazione con attenzione, praticamente devo programmare il futuro , come del resto già faccio per mestiere.
Tiro fuori il meglio di me, anche se non è facile, perché lasciare la strada vecchia per quella nuova comporta sempre fatica. Mi immagino con giacca e cravatta in un ambiente molto più formale in cui la competizione è alle stelle, in cui bisogna essere leoni e non gazzelle. So che sarà cosi, ma ci devo provare.
Inizio a maggio 2010. Aspetto che il manager arrivi al nono piano del palazzo uffici dal quale si domina Verona e si vede anche il tetto dell’edificio in cui lavoravo prima. Mando un sms alla stessa persona che mi ha detto che parlo molto meglio in inglese che in italiano e mi sento rispondere che comunque vada sarà un successo.
Non è proprio cosi. Le responsabilità ed il carico di lavoro sono enormi. Sai quando inizi a lavorare al mattino, ma non sai quando vai a casa alla sera, per non dire alla notte. E dopo un mese a bruciapelo mi dicono che sarei stato trasferito in India. Ho il cervello in panne, forse è meglio che mandi messaggi in inglese se voglio comunicare con qualcuno, perché le frasi in italiano non mi escono dalla testa.
La situazione rapidamente evolve: il carico di lavoro cresce ancora di più , sempre di più, ma al momento non mi devo spostare. I ritmi sono incalzanti, la gestione è complessa , le scadenze strettissime, le pressioni fortissime, le responsabilità un macigno: la testa che pensa se sarò in grado di resistere, la testa che pensa se tutto ciò ne vale la pena. Ed è il solito dilemma, perché questo è comunque un posto di lavoro molto sicuro al momento.
Sacrifico tutto: me stesso, amici, libertà. Devo imparare in fretta, per dare risposte in fretta, per poter gestire il tutto in fretta, perché i tempi sono strettissimi ed il cliente vuole risultati: la testa che continua a pensare se tutto ciò ne vale la pena.
Sono al telefono tutto il giorno con l’India, parlo in inglese con accento indiano, a volte inoltro agli amici pezzi di testi sacri in lingua sanscrita. Immagino che oltre la connessione web vi sia un posto completamente diverso, immagino che la vita da loro sia incredibilmente diversa: smetto di immaginare quando il manager mi chiama e mi dice che entro una settimana avrei avuto in mano la prenotazione di un volo e di una suite cinque stelle in uno dei migliori residence di una città indiana del nord. Volo di rientro dopo due mesi .
Parto adesso con la mente sgombera: troppi giorni senza tregua, senza sorriso, senza respiro, senza rispetto, troppi giorni senza dialogare, ma solo combattere, senza comunicare , ma solo urlare. La solita persona mi ripete che comunque vada sarà un successo . E cosi ora è.Il gigante asiatico che a partire dalla metà degli anni ’80 si è sempre più specializzato nella produzione e nella fornitura di software, che si colloca al terzo posto nel mondo per numero di tecnici nel settore, ma il cui tasso di alfabetizzazione è solo del 60% mi accoglie. Non avrei mai immaginato di finire in un posto come quello: quadro di miseria e di dignità, di contrasti e di tradizioni, di colori e di degrado.
Trascorro due mesi in una suite, ho la palestra al piano terra, il domestico ogni giorno, lavoro con l’aria condizionata in uno stabile di lusso, ho l’autista personale. Accanto a me colleghi che vivono in case che sono poco più che baracche , per andare in ufficio la mia macchina affonda nelle pozzanghere durante la turbolenta e straumida stagione delle piogge, la gente non ha lavoro, non ha soldi.
Per le strade vi è di tutto: merce, cibo, animali, persone sedute per terra, persone che camminano scalze, donne nei loro tipici abiti colorati , donne con il burka, donne in abiti occidentali, ragazzini ovunque, motorini scassati, auto ammaccate, risciò, palazzi dell’antico potere e splendore, palazzi del nuovo potere, quello economico che fa lavorare le persone ai costi che fanno sognare l’occidente.
La città degrada in altezza: dai grattacieli del centro dove mangi benissimo in posti eleganti, alle case diroccate della periferia dove il pavimento è un tutt’uno con il fango della strada.
Mi chiedo quale essere umano possa sopravvivere bevendo questa acqua: mi chiedo se sono forse giunto in mezzo ad una razza aliena che ha sviluppato un meccanismo cellulare diverso.
Mi chiedo cosa faccia qui una creatura quando esce dalla pancia della madre e in che situazione si trovi una persona quando ha bisogno di cure. Mi sento disorientato perché sono parte di uno strano meccanismo : mi godo l’aria condizionata e l’acqua potabile, ho una copertura medico assicurativa, spendo come e quanto voglio,lascio sistematicamente al mio domestico l’equivalente di cinquanta centesimi di euro , con i quali lui può campare una giornata, poi scendo per andare in ufficio e lo spettacolo che mi si presenta sotto gli occhi è quello dei servizi televisivi in cui solo il degrado viene messo in risalto.
Ma non è tutto così. Sarà forse per la reciproca curiosità, mia e dei colleghi, sarà che io stesso ora ho voglia di parlare, mentre in Italia ero molto più sereno quando nessuno durante il giorno mi rivolgeva la parola, ma mi fa piacere comunicare e ascoltare le persone: penso meno al fatto che fuori vi sia un altro mondo.
Non mi sono mai ritenuto credente, eppure qui mi sembra di percepire una spiritualità diversa. E forse una parte di energia passa attraverso la mia pelle. Non ho mai fatto molta attenzione alle dinamiche che si instaurano quando si cerca un dialogo con un’altra persona, eppure qui mi prendo tempo per osservare e studiare le reazioni, il tono della voce, i gesti delle mani, i particolari dello sguardo.
In generale da troppo tempo a questa parte non mi sono mai fermato, eppure qui sono costretto a farlo, perché inevitabilmente ci sbatti dentro a questo mondo: o fai finta di nulla e pensi che tanto le tue cose, la tua casa , il tuo solito quotidiano ti aspettano in occidente ed è solo questione di resistere qualche settimana per poi ritornare, o provi ad avvicinarlo, senza giudicarlo, ma solo per conoscerlo.
Torno in Italia con il nuovo software sviluppato per il cliente, torno con mille immagini che hanno bucato l’obiettivo della macchina fotografica, torno con i video rubati puntando il cellulare per alcuni decine di secondi contro i volti delle persone incontrate per strada, torno con tante storie da raccontare per tutti, anche per coloro che faranno comunque fatica a calarsi nel quotidiano che ho vissuto, ma fa lo stesso.
Questo è il mio bagaglio, che rimane mio, che mi ha riempito il cervello di pensieri ai quali non avevo mai pensato, che mi ha fatto vedere cose che non avrei mai immaginato, che mi ha fatto ritrovare il gusto per piccoli particolari che forse stavo perdendo.